domenica 8 novembre 2020

IL SINCROTRONE: LA RADIAZIONE, LA MACCHINA E LE APPLICAZIONI

Volevo condividere con i lettori di Scienza e Musica una presentazione che mi sono trovato a realizzare relativamente al sincrotrone, dove si parla nello specifico della radiazione di sincrotrone, di come è costituita la macchina sincrotrone e vengono illustrate alcune delle più interessanti applicazioni.

Piccola nota: è comune errore (purtroppo capitato pure al sottoscritto) scrivere "sincrotone" invece di sincrotrone. Il termine corretto è sincrotrone! Ho provveduto a sistemare tale refuso nei vari punti dove era presente e non mi ero inizialmente accorto.

Vediamo ora alcune precisazioni che possono essere utili al lettore non esperto per una piena comprensione della suddetta presentazione, in cui alcuni dettagli vengono dati per scontato.

domenica 23 agosto 2020

LA LEGGE DI FARADAY-NEUMANN-LENZ E IL CONTRIBUTO DEL FISICO FRANCESCO ZANTEDESCHI

Il presente post nasce da una segnalazione via Twitter da parte di Marco Fulvio Barozzi (alias il mitico Popinga) di un thread dedicato alla figura di Francesco Zantedeschi, un abate e fisico italiano, che apportò, come vedremo, importanti contributi nell'ambito dell'elettromagnetismo.
In passato abbiamo già narrato alcune vicende essenziali nella storia dell'elettromagnetismo, come per esempio la disputa tra Galvani e Volta (cliccate qui) e gli esperimenti di Ørsted, Faraday e Ampère (cliccate qui).
In particolare, abbiamo avuto modo di analizzare alcuni contributi essenziali e parte della biografia del grande fisico e chimico britannico Michael Faraday (1791-1867) nel post "Faraday e l'elettrolisi".
Qui ci focalizzeremo su un'importantissima equazione, la legge spesso chiamata di Faraday-Neumann-Lenz e scopriremo il contributo essenziale del poco conosciuto Zantedeschi.
Innanzitutto presentiamo un po' meglio il personaggio protagonista del post.

Figlio di Bartolomeo e Domenica Loro, «ricca commerciante famiglia che per le vicende della guerra di Rivoli precipuamente fu ridotta in gravi ristrettezze di fortuna», Francesco Zantedeschi nacque a Dolcè (in provincia di Verona) il 18 agosto 1797.
Seguì la strada del sacerdozio e fu ordinato sacerdote dal Vescovo di Verona Innocenzo Maria Lirutti nel marzo del 1822.
Zantedeschi si dedicò subito all'insegnamento, cominciando nel Liceo Bagatta di Desenzano, ove insegnò per 4 anni fisica e storia naturale.
A questi anni risale il suo trattatello Geologia dei terreni che circondano il lago di Garda, rimasto inedito.
Nel 1827 venne chiamato a Pavia dal vescovo Luigi Tosi, che gli affidò le cattedre di matematica e fisica nel seminario vescovile e dove frequentò l'università assistendo alle lezioni di eminenti professori come Antonio Maria Bordoni, Giuseppe Moretti, Bartolomeo Panizza, Giacomo Zendrini o l'abate Pietro Configliachi e stringendo con loro rapporti di studio e d'amicizia.
Fu proprio qui a Pavia che Zantedeschi effettuò i suoi primi esperimenti con i magneti, di cui parleremo meglio in seguito.
La sua carriera di fisico venne interrotta dal vescovo di Verona Giuseppe Grasser, che nel 1829 lo chiamò ad insegnare filosofia teoretica e pratica nel suo seminario.
Questa "parentesi filosofica" non fu del tutto improduttiva: oltre a pubblicare (e poi rieditare) gli Elementi della sua filosofia e una dissertazione sui Principii generatori delle umane cognizioni «accolta con molto favore dall'Accademia delle Scienze di Berlino», Zantedeschi non rinunciò agli studi e alle ricerche di fisica riprendendo con l'abate Giuseppe Zamboni, suo vecchio maestro, alcuni esperimenti sui magneti, interessandosi alle osservazioni meteorologiche e al fenomeno della rugiada e ricevendo una medaglia d'oro dall'Ateneo di Brescia per le sue Ricerche sul termo-elettricismo dinamico, luci-magnetico ed elettrico.
La "parentesi filosofica" ebbe termine nella primavera del 1838 quando Zantedeschi venne chiamato a ricoprire la cattedra di fisica e matematica applicata al liceo di Santa Caterina di Venezia (ora noto come liceo classico "Foscarini").
Si dedicò a questo insegnamento con passione: egli stesso attesta che alle sue lezioni partecipavano addirittura sino ad 80 studenti.
Fu un periodo propizio anche per ricominciare con efficacia gli studi e le pubblicazioni su varie tematiche della fisica.
Nel luglio 1849, a seguito della morte di Antonio Perego, fino a quel momento titolare della cattedra di Fisica, Zantedeschi ottenne l'importante cattedra all'Università di Padova, cattedra mantenuta sino al 1857. Da qualche anno iniziò infatti a manifestare gravi problemi alla vista; venne privato della cattedra, la quale fu prontamente ceduta a Bernardino Zambra.
Zantedeschi avvertì tale privazione come un'ingiustizia alla quale non volle rassegnarsi; tentò pure di appellarsi al Governatore Generale, l'Arciduca Ferdinando Massimiliano, ma senza esito.
In ogni caso, oltre all'insegnamento, durante gli anni trascorsi a Padova il fisico si dedicò a far restaurare svariati apparecchi dell'Università e ne fece costruire di nuovi, valendosi dell'abile opera di Angelo Sonda, meccanico alle sue dipendenze, come pure di collaboratori esterni.
Zantedeschi continuò ad interessarsi alla fisica sino a quasi la fine della sua vita, occupandosi di temi svariati.
Sono infatti numerosi i suoi scritti fino al 1870 (l'elenco totale delle sue pubblicazioni comprende oltre 250 scritti).
Successivamente sopravvenne un declino fisico accentuato, che lo costrinse in letto.
Il fisico italiano esalò l'ultimo respiro, a Padova, il 29 marzo 1873.
Due anni più tardi le sue ceneri vennero traslate a Verona, nel pantheon "Ingenio claris" del cimitero.
A Dolcè, suo paese natale, è stata murata una lapide con un suo busto in bronzo all'interno del palazzo municipale, nel 1914.
Il Comune di Verona gli ha dedicato anche una strada nel 1960.
Durante la sua vita fu socio di numerose accademie e società scientifiche rilevanti, tra cui anche l'Accademia delle Scienze di Torino dal 1837, e l'Accademia dei Lincei dal 1849.
Bene, è giunto il momento di focalizzarci sulla fisica e in particolar modo sulla legge di Faraday-Neumann-Lenz.
Per una piena comprensione della suddetta equazione e delle vicende ad essa legate è tuttavia necessario prima compiere una breve premessa sugli aspetti essenziali del magnetismo, argomento che non abbiamo mai avuto modo di trattare esplicitamente su questo blog.

sabato 6 giugno 2020

L'EQUAZIONE DI SCHRÖDINGER: UNA "SEMPLICE" INTRODUZIONE

Tante volte nel corso degli anni in questo blog abbiamo citato la famosa equazione di Schrödinger alla base della meccanica quantistica, tuttavia non siamo mai entrati nel dettaglio. In particolare, non abbiamo mai visto da dove esce fuori.
In questo post cerchiamo finalmente di capire come si arriva a definire tale equazione.
In realtà per il momento ci accontenteremo di ricavarla nel caso più semplice possibile, dato che ci sono innumerevoli modi in cui poter scrivere e ricavare la celebre formula.
Come premessa alla narrazione che seguirà, consiglio il lettore di rileggere l'introduzione storica alla meccanica quantistica (e non solo) del Carnevale della Fisica n.42 (cliccate qui) e il post relativo alla figura di de Broglie e il dualismo onda-corpuscolo (cliccate qui) che compare in meccanica quantistica.
La meccanica quantistica parte dall'idea essenziale che tutto quanto (materia e radiazione) possa essere espresso in termini di onde.
In particolare, la meccanica quantistica (o meglio una sua formulazione nota come meccanica ondulatoria) ruota attorno al concetto di funzione d'onda
che si suppone di variabile complessa e dipendente da una posizione r e da un tempo t.
Una funzione d'onda è ciò che va a descrivere il sistema in esame, qualunque esso sia (naturalmente ricordiamo che la meccanica quantistica rende davvero rilevanti i suoi effetti solo nell'ambito del mondo microscopico).
Ma cosa significa veramente la funzione d'onda?
L'interpretazione più comune è quella fornita da Max Born (1882-1970) nel 1926.
Costui la definì come l'oggetto per il quale
rappresenta la probabilità di trovare la particella in questione nella posizione r (tridimensionale) al tempo t, a seguito di una misura di posizione.
Infatti, se scomponiamo l'espressione appena scritta, la parte
denota una densità di probabilità, la quale moltiplicata appunto per un volumetto dr restituisce una probabilità.
Qual è la situazione più semplice per ricavare l'equazione di Schrödinger?
Beh è il caso di una particella libera, ovvero in assenza di qualsivoglia forma di potenziale.
Per pervenire al nostro obiettivo, dobbiamo innanzitutto fornire un'espressione del momento lineare p (ossia la quantità di moto) della particella:

ove ℏ è la costante di Planck ridotta e

è il vettore d'onda mentre λ designa la lunghezza d'onda.
Abbiamo per semplicità considerato solo i moduli di queste quantità (che dovrebbero essere scritte in forma vettoriale).
Un altro aspetto che ci interessa è esprimere l'energia E.
Ricordiamo la nota legge
in cui h è la costante di Planck (in versione non ridotta) e ν è la frequenza; possiamo tuttavia esprimere l'espressione in forma più comoda per i nostri fini.
Ricordiamo infatti che
e

ove ω è la pulsazione.
Se fate le opportune (banali) sostituzioni, vi renderete subito conto che
Ci chediamo a questo punto: qual è l'onda più semplice della quale è possibile definire in maniera esatta il vettore d'onda k e l'energia E?
Risposta: l'onda piana (che per semplicità andiamo a considerare in una singola dimensione spaziale).
Il passaggio che vi potrebbe risultare oscuro è la definizione della velocità v.
Questa è una cosiddetta velocità di fase e si esprime con la semplice relazione
Concentriamoci adesso sull'energia E. Siccome abbiamo detto che stiamo considerando il caso della particella libera, non sussiste alcun potenziale e l'unico contributo energetico è quindi quello di natura cinetica.
Sapete (spero) bene che l'energia cinetica è fornita da
In realtà c'è un modo equivalente di esprimerla in termini di momento lineare:
Questa è l'energia che ci interessa. In verità, andando a sostituire la facile espressione di p fornita poco fa e ricordando che (nella forma più generale possibile)
possiamo scrivere quella che viene chiamata relazione di dispersione:
in cui viene ben evidenziata la dipendenza della pulsazione ω dal vettore d'onda k.
Bene rifocalizzate ora la vostra attenzione sull'espressione dell'onda piana ψ.
Proviamo a farne la derivata rispetto al tempo:
Come vedete, è molto semplice, dato che la derivata di un esponenziale ci restituisce l'esponenziale stesso (quindi la funzione), coefficienti particolari a parte.
Facciamo un banale passaggio algebrico per isolare in un membro dell'equazione la ψ:
Qualcuno potrebbe avere delle perplessità sul fatto che l'unità immaginaria -i presente nel secondo membro è diventata in sostanza +i nell'altro membro della relazione.
In realtà la questione è molto semplice, basta ricordare come funziona la divisione tra numeri complessi.
Se non ricordate, potete vedere qui. Applicate la definizione al nostro caso e noterete che tutto torna!
A questo punto, siccome ci piace derivare, riprendiamo l'onda piana e deriviamo non una, ma ben 2 volte rispetto alla posizione x. Si ottiene semplicemente:
Anche qui preferiamo isolare ψ in un membro:
Abbiamo isolato la ψ in entrambe le operazioni di derivazione in maniera, adesso, da poter eguagliare le formule risultanti:
Andate ora a ridare un'occhiata alla relazione di dispersione.
Fatto?
Bene, tale fondamentale relazione ci consente di riscrivere tutto come:
A questo punto, facendo le ovvie semplificazioni e andando a moltiplicare entrambi i membri per ℏ², si ottiene in definitiva:
Eccola qui: questa è l'equazione di Schrödinger per una particella unidimensionale libera!
Una domanda lecita adesso sarebbe: ma se volessimo considerare pure le altre dimensioni spaziali, come potremmo esprimerla?

lunedì 9 marzo 2020

INTEGRALI CURVILINEI (DI SECONDA SPECIE), FORME DIFFERENZIALI E TEORIA DEL POTENZIALE

Nel precedente post (cliccate qui per leggerlo) abbiamo introdotto il concetto di curva regolare e abbiamo osservato cos'è un integrale curvilineo di prima specie.
Naturalmente esiste la nozione di integrale curvilineo di seconda specie, intimamente legata ad altri concetti tra cui le forme differenziali.
Prima però di parlare di tutto ciò è necessario focalizzarci ancora un attimo sulle curve.
L'altra volta avevamo detto che ad ogni curva γ è possibile associare un orientamento, tuttavia avevamo introdotto questo discorso facendo riferimento alla parametrizzazione della curva.
Per le applicazioni quali il calcolo del lavoro di un campo vettoriale lungo una curva (cioè, come vedremo, dell'integrale curvilineo di seconda specie), è decisamente più utile introdurre la nozione di orientamento di una curva in maniera intrinseca, cioè indipendente dalla parametrizzazione.
Diremo, nello specifico, che l'applicazione (vettoriale) continua




è un orientamento se:

1)



ove p è un punto del sostegno della curva γ. Questo significa che T è un versore.

2)

T(p) risulta tangente a γ in χ (lettera greca "chi"). In altri termini:





 funzione continua e derivabile, con I generico intervallo di ℝ, tale che:




Diremo inoltre che γ è una parametrizzazione compatibile con l'orientamento se:






T rappresenta, in sostanza, il versore tangente.
Si ricordi che gli orientamenti possibili sono naturalmente solo 2.
Dato che siamo praticamente pronti ad introdurre il concetto di integrale curvilineo di seconda specie, l'unico dettaglio che potrebbe essere utile ricordare è cos'è un campo vettoriale e per rinfrescare la memoria su tale argomento vi consiglio di cliccare qui.
Bene, consideriamo ora un campo vettoriale continuo



Sia poi γ curva orientata con orientamento T.
Nel dettaglio



con T tangente a γ.
Chiamiamo integrale curvilineo di seconda specie (detto pure integrale curvilineo lungo una curva orientata o anche lavoro del campo F lungo una curva orientata) del campo F lungo la curva γ il numero reale:






Nelle ultimi notazioni abbiamo voluto precisare con la freccia posta sopra F e il "cappello" sopra T il fatto che si trattassero rispettivamente di un vettore e di un versore, in modo da rendere chiaro che la notazione




denotasse il loro prodotto scalare, che produce appunto un numero (non un vettore).
Un'altra notazione tipica per indicare il suddetto integrale è la seguente:






 In maniera esplicita diciamo che se




è una parametrizzazione compatibile con l'orientamento, allora:














 
Ergo, l'integrale curvilineo di seconda specie si riduce al calcolo dell'integrale tra gli estremi a e b del prodotto scalare del campo vettoriale F (calcolato in γ(t)) per la derivata della curva γ parametrizzata.
Va specificato che l'integrale appena definito risulta indipendente dalla parametrizzazione compatibile con l'orientamento.
Una domanda legittima a questo punto potrebbe essere: cosa succede se cambiamo l'orientamento della curva?
Risposta: semplicemente cambia il segno dell'integrale. In simboli:






A questo punto la prassi sarebbe procedere con un chiaro esempio esplicativo di calcolo di un integrale curvilineo di seconda specie.
Prima di far ciò, tuttavia, vorrei procedere all'introduzione dell'importante concetto di forma differenziale, che, come vedremo, è intimamente legato ai campi vettoriali.
Cos'è una forma differenziale in parole povere?
È semplicemente un'integranda, cioè un'espressione che può essere integrata rispetto ad alcuni domini.
Per esempio, considerando l'integrale






in tal caso dx è una forma differenziale.
Naturalmente non tutte le integrande sono forme differenziali, come per esempio accade nel calcolo della lunghezza di un arco di curva o dell'area di una superficie.
Ottima è la spiegazione che Wikipedia fornisce relativamente alle forme differenziali:




Specifichiamo che una varietà differenziabile è una generalizzazione del concetto di curva e di superficie differenziabile in dimensione arbitraria.
Le forme differenziali che ci interessano, nello specifico, nell'ambito dell'integrale curvilineo, sono dunque le 1-forme, chiamate a volte pure forme differenziali lineari.
Prima di entrare nei dettagli, è necessario richiamare alcune nozioni di algebra lineare.

sabato 8 febbraio 2020

CURVE REGOLARI ED INTEGRALI CURVILINEI (DI PRIMA SPECIE)

Non è la prima volta che ci occupiamo di curve matematiche in questo blog.
Infatti in passato abbiamo per esempio parlato della curva che congiunge 2 punti nel minor tempo possibile (il problema della brachistocrona), della spettacolare elica cilindrica con le sue fondamentali applicazioni nel mondo dell'arte e di curve cubiche come la versiera di Agnesi e la cissoide di Diocle.
In questo post vogliamo però condurre un discorso più generale relativo alle curve (con particolare riferimento a quelle regolari), che ci porterà a illustrare  l'importante concetto di integrale curvilineo (detto pure integrale di linea), almeno nella sua prima forma.
Se avete familiarità con la nozione di integrale definito, osserverete che l'integrale di linea è una semplice estensione del concetto inerente al "magico" mondo delle curve.
Ma procediamo per gradi!
Innanzitutto, partiamo dalle fondamenta: che cos'è una curva?
È facile pensare all'idea di una curva, un insieme di punti nello spazio in cui una particella è libera di muoversi con un singolo grado di libertà; leggermente più difficile è fornire una definizione davvero rigorosa dal punto di vista matematico.
Assumendo di riferirci allo spazio vettoriale ℝn, l'analisi matematica ci definisce una curva come una funzione (vettoriale) continua del tipo




dove I è un generico intervallo.
Di solito quando consideriamo I alla stregua di un intervallo chiuso e limitato (ossia compatto per il teorema di Heine-Borel) [a,b], si parla di arco di curva.
Per chi non ricordasse esattamente cosa significa funzione continua, ne diamo 2 definizioni, una che potrebbe comprendere anche un bambino e l'altra per gli amanti del rigore matematico.
Una funzione è continua (in tutti i punti) quando per tracciarla graficamente su un sistema di riferimento cartesiano non è necessario staccare mai la matita dal foglio!
In termini formali invece una funzione si dice continua in un punto x₀ se vale la seguente uguaglianza:





Se tale uguaglianza risulta valida per qualsiasi punto dell'intervallo [a,b] considerato, allora la funzione è continua in tutto l'intervallo.
Detto ciò, si definisce traccia o sostegno γ* della curva γ l'immagine di γ, ossia, in simboli:




Per farsi un'idea più concreta di cosa sia la traccia è sufficiente pensare alla traiettoria di un moto nello spazio e che racchiude in sé gli aspetti geometrici della curva.
Assumiamo ora che una curva (nello spazio euclideo tridimensionale) venga definita da una generica funzione (vettoriale) continua 



Tale funzione vettoriale r si chiama parametrizzazione della curva e contiene le informazioni sul modo in cui la curva viene percorsa.
In particolare, si avrà che







ove la variabile t ∈ [a,b] viene detta parametro della curva e i,j,k sono i classici versori relativi agli assi cartesiani.
In sostanza, al variare di t, r(t) descrive γ, che è il sostegno della curva (trattasi semplicemente di una notazione diversa per esprimerlo).
Una stessa curva può essere parametrizzata in infiniti modi diversi.
Diciamo ora che una curva (o un arco) è chiamata semplice se la funzione r(t) risulta iniettiva.
Un arco



si dice chiuso se



Un arco di curva è poi detto chiuso semplice se la funzione è iniettiva e vale la condizione appena scritta.
Resta il fatto che spesso, specialmente in ambito fisico, è utile pensare ad r(t) come ad una funzione descrivente la posizione all'istante t di una particella che si muove nello spazio euclideo tridimensionale.
In sostanza, si sta assumendo un'interpretazione cinematica della nozione di curva.
Le innumerevoli parametrizzazioni della medesima curva rappresentano, da questo punto di vista, gli infiniti modi diversi (con velocità diverse) di percorrere tale traiettoria.
Diciamo, in particolare, che la funzione vettoriale r è derivabile se tali sono le sue componenti scalari.
Avremo naturalmente che la sua velocità (o derivata) è data da:




mentre la velocità scalare è la norma di tale vettore, cioè



Se poi anche r' risultasse a sua volta derivabile, l'accelerazione (vettore) sarebbe fornita ovviamente dalla formula:




La velocità e l'accelerazione vanno, tra le altre cose, a fornire una classificazione dei moti.
Si ha infatti un moto uniforme quando il modulo della velocità risulta costante; in caso contrario si parla di moto vario.
In quest'ultimo caso, se l'accelerazione risulta costante si parla di moto uniformemente accelerato quando sussiste un incremento (nel tempo) del valore assoluto della velocità, mentre si parla di moto uniformemente ritardato (o decelerato) quando la velocità decresce nel tempo.