lunedì 23 dicembre 2013

CARNEVALE DELLA CHIMICA #34: ATOMI, IONI E PARTICELLE

"Poiché nel corso infinito del tempo sono stati usati e riusati incessantemente, per aggregare e disgregare le cose più diverse, questi atomi devono essere dotati di una semplicità elementare." Lucrezio, De rerum natura


Benvenuti al Carnevale della Chimica n.34!
Il tema di questa edizione è, come sempre avviene nei Carnevali ospitati su Scienza e Musica, ampio e ricco di sfaccettature: "Atomi, ioni e particelle".
Prima di osservare la sfilata dei meravigliosi contributi arrivati, come tradizione, il Carnevale si apre con una corposa introduzione sul tema prescelto.
This is the beginning!



La parola "atomo" deriva dall'aggettivo greco àtomos, ovvero "indivisibile", "privo di parti".
Il concetto di atomo è davvero molto antico: diversi filosofi greci avevano infatti congetturato l'esistenza di un mattone fondamentale della natura, il quale risultasse appunto indivisibile.
Il fondatore, nel V secolo a.C., della scuola atomistica fu Leucippo di Mileto, nome tuttavia poco noto al grande pubblico, in quanto completamente oscurato da quello del suo allievo Democrito di Abdera (460 a.C. - 370 a.C.).
Democrito, con le sue idee, riuscì in un certo senso a fondere insieme le 2 grandi scuole di pensiero che sussistevano all'epoca: la visione di Eraclito e quella di Parmenide.
Per Eraclito di Efeso (535 a.C. - 475 a.C.) nel mondo non esiste nulla che stia fermo: tutto quanto è in incessante movimento.
Non a caso egli viene particolarmente ricordato per il motto pánta rhêi, ossia "tutto scorre".
Secondo tale singolare prospettiva, non sarebbe possibile bagnarsi 2 volte nel medesimo fiume, giacché le sue acque si rinnovano in modo continuo.
L'antitesi di Eraclito fu appunto Parmenide di Elea, assieme alla sua concezione dell'Essere che "è e non può non essere".
Sì, detto così sembra proprio uno scioglilingua!
In pratica, quello che Parmenide intendeva dire è che esiste solamente un qualcosa denominato "Essere", il quale possiede determinate peculiarità:
  • è eterno;
  • è finito;
  • è ingenerato e imperituro;
  • è immutabile e immobile.
Dunque per Parmenide la molteplicità e i mutamenti del mondo fisico sono mere illusioni e la vera realtà è fornita unicamente dall'Essere.
Democrito riuscì ad unificare 2 visioni filosofiche così discordanti proprio mediante il concetto di atomo.
Infatti, a detta del filosofo, anche se un oggetto appare immobile e statico, la sua struttura "intima" è costituita da atomi, intervallati dal vuoto, i quali si muovono senza sosta.
La teoria degli atomi ebbe anche molti critici, tra cui Aristotele, il quale sosteneva fermamente che la materia potesse essere suddivisa all'infinito in particelle sempre più piccole ed uguali fra loro.
L'idea dell'atomo venne ripresa anche in epoca latina, in particolare da Epicuro (341 a.C. - 271 a.C.).
Per Epicuro e i suoi discepoli nulla si generava dal nulla, e per le cose non c'era né inizio né fine.
Il movimento degli atomi nel vuoto risultava soggetto soltanto al caso e alla necessità.
Il caso rappresentava il risultato delle leggi meccaniche che regolavano le traiettorie degli atomi, i quali potevano muoversi in qualsivoglia direzione.
La necessità designava invece la conseguenza della loro tendenza naturale a compiere bruschi spostamenti nel procedere in linea retta, il che generava un movimento caotico.
Epicuro ebbe un importante discepolo nel poeta Lucrezio, che, nel suo poema epico-didascalico De rerum natura, fornì un'approfondita descrizione della teoria atomica, tanto che il primo dei 6 libri che compongono la maestosa opera ha come sottotitolo "Gli atomi".
Riporto un significativo frammento, tratto appunto dal libro I:

"Tra i corpi, alcuni sono semplici e altri composti. I corpi semplici, o "atomi", sono indistruttibili proprio per la loro semplicità: essi resistono a ogni forza che cerchi di scomporli, non essendo composti. Però, è difficile credere all'esistenza di cose indecomponibili. Infatti, i mattoni dei muri sono permeabili ai fulmini celesti e alle voci umani. Il fuoco permea e arroventa il ferro, spezza le pietre, scioglie il duro oro e fonde il gelido bronzo. Una coppa d'argento si scalda e si raffredda, tenuta in mano o riempita di vino fresco. Sembra dunque che al mondo non ci sia niente di semplice, ma la ragione e la natura delle cose ci diranno altrimenti. Presta dunque molta attenzione ai prossimi argomenti, nei quali ti dimostro l'esistenza degli atomi, le loro proprietà, e il modo in cui essi costituiscono tutte le cose del mondo. Anzitutto, abbiamo visto che la materia è diversa dal vuoto: le loro nature sono distinte e separate, perché dove c'è materia non c'è vuoto, e dove c'è vuoto non c'è materia. I corpi semplici devono dunque essere materiali e privi di vuoto. I corpi composti, invece, contengono del vuoto circondato da materia. Se non ci fosse del vuoto, tutto sarebbe materia. E se non ci fosse materia, tutto sarebbe vuoto. Ma poiché non ci sono né il pieno assoluto, né il vuoto assoluto, devono esserci atomi capaci di aggregarsi per delimitare il vuoto. E questi atomi sono indistruttibili, perché si può distruggere solo ciò che contiene del vuoto. Anzi, quanto più vuoto contiene un corpo, tanto più è distruttibile, e vulnerabile alle cause della distruzione.
Gli atomi, invece, che non contengono vuoto, non sono composti, e non possono né essere divisi, né soccombere a elementi distruttori come l'acqua o il fuoco: dunque, sono eterni. D'altronde, se la materia passata non fosse stata eterna, nel corso infinito del tempo sarebbe stata completamente distrutta, e la materia presente avrebbe dovuto essere ricreata dal nulla. Ma abbiamo già stabilito che nulla si crea, e nulla si distrugge. Dunque, gli atomi devono essere immortali, per permettere il farsi e disfarsi delle cose."

Lucrezio, come avete potuto constatare dal passo appena riportato, asseriva che i corpi fossero aggregati di atomi separati dal vuoto.
Specificava inoltre che più vuoto essi contengono, più sono leggeri e distruttibili.
Tale teoria venne ripresa, nel 1704, nientemeno che da Isaac Newton (1642-1727).
Costui, nella sua opera Ottica e, in particolare, nella Proposizione II,8, si pose il problema di determinare la quantità di vuoto presente in un corpo, riscontrando che se a ciascun livello di aggregazione le parti che si aggregano occupano uno spazio pari a quello del vuoto che le separa, allora la quantità di vuoto cresce in modo esponenziale rispetto al numero dei livelli.
Nello specifico, al primo è pari a 1/2, al secondo 3/4, al terzo 7/8, al quarto 15/16 e così via.
In altri termini, più la struttura gerarchica di un corpo risulta stratificata, maggiore è il vuoto che essa contiene.
Newton capì dunque che "la causa della riflessione non è che le particelle di luce rimbalzano sulle parti solide dei corpi", in quanto essi contengono molto più vuoto di quanto si potesse immaginare.
Nei primi anni del XX secolo, a Manchester, il fisico e chimico neozelandese Ernest Rutherford (premio Nobel per la Chimica nel 1908) compì diversi esperimenti per sbrogliare una volta per tutte questa intricata questione e capire quanto vuoto contenesse un atomo.
La questione è ben sottolineata da un aneddoto (riportato in Rutherford, Simple Genius di David Wilson), raccontato dallo stesso Rutherford, riguardo delle giornate del 1909 che avrebbero cambiato la storia della scienza:

"Un giorno Geiger venne da me e mi chiese: “Non pensi sia ora che il giovane Marsden cominci a seguire un suo piccolo progetto di ricerca?”. Be'...anch'io ci avevo pensato, risposi. “Perché non gli facciamo verificare se qualche particella alfa può subire deflessioni a grandi angoli?”. 2 o 3 giorni dopo Geiger tornò da me in uno stato di grande agitazione: “Siamo riusciti ad acciuffare alcune delle particelle alfa mentre rimbalzano indietro!"...È stata la cosa più sbalorditiva che mi sia mai capitata. Era incredibile, più o meno come sparare un proiettile calibro 381 contro un foglio di carta velina, vederselo tornare indietro e poi esserne colpito."

Né Rutherford né Geiger avevano compreso pienamente cosa fosse successo nel seminterrato, in quel fatidico giorno del 1909.
L'incredibile evento fu l'apice di una serie di esperimenti sullo scattering delle particelle alfa.
In parole semplici, lo scattering (detto anche diffusione) altro non è che un fenomeno in cui onde oppure particelle vengono deviate a causa di un urto con altre particelle o onde, un po' come succede alle palle da biliardo.
Che cos'è invece una particella alfa?
Era una domanda che assillava Rutherford dopo che aveva scoperto che i raggi alfa erano particelle dotate di carica positiva che venivano deflesse da intensi campi magnetici.
Il fisico neozelandese riteneva che una particella alfa fosse uno ione di elio, ovvero un atomo di elio che aveva perso 2 elettroni, ma, fino a quei fondamentali esperimenti assieme al giovane Hans Geiger, non aveva trovato delle prove concrete che confermassero la sua teoria.
La svolta in tal senso avvenne nell'estate del 1908, periodo in cui i 2 scienziati confermarono che una particella alfa fosse effettivamente un atomo di elio che aveva perduto 2 elettroni, ossia, in simboli, 4He2+.
E furono proprio le particelle alfa ad aiutare Rutherford nell'investigazione della struttura dell'atomo.
"La diffusione è il diavolo" aveva asserito il fisico mentre cercava di smascherare, insieme a Geiger, la particella alfa.
Lo scienziato aveva osservato per la prima volta il particolare fenomeno di scattering 2 anni prima a Montreal, quando alcune particelle alfa che avevano attraversato un foglio di mica erano state lievemente deflesse dalla loro traiettoria rettilinea, producendo una sfocatura su una lastra fotografica.
Rutherford era fermamente deciso ad approfondire la questione ed ebbe l'occasione giusta a Manchester.
Egli, una volta giunto a Manchester, aveva infatti stilato una lista di potenziali argomenti di ricerca e affidò appunto a Geiger il compito di indagare sulla diffusione delle particelle alfa.
I 2 scienziati progettarono assieme un semplice esperimento atto a misurare le scintillazioni, ossia i minuscoli lampi di luce prodotti dalle particelle alfa quando colpivano uno schermo di carta rivestito di solfuro di zinco (ZnS), dopo aver attraversato un sottile foglio d'oro.
Tuttavia, il conteggio delle scintillazioni era tutt'altro che semplice, un lavoro in cui risultava necessario trascorrere ore ed ore nel buio totale.
Ma, a detta di Rutherford, Geiger era "bravissimo in quel lavoro e riusciva a contare con qualche interruzione per una notte intera senza che la sua equanimità ne risentisse".
Questi grandi sforzi servirono per scoprire che le particelle alfa o passavano indisturbate attraverso il foglio d'oro, oppure venivano deflesse di uno o due gradi.
Era ciò che ci si aspettava, nessuna particolare sorpresa, almeno finché Geiger non riferì di aver osservato anche qualche particella alfa "deflessa di un angolo decisamente apprezzabile".
Ci stiamo ancora riferendo al 1908, anno in cui Rutherford, come già detto, venne insignito del Nobel per la Chimica per le sue scoperte inerenti alla radioattività.
Tornato vittorioso da Stoccolma, Rutherford non dormì sugli allori, ma anzi, si mise a studiare come valutare le probabilità associate con differenti gradi di diffusione delle particelle alfa.
I suo calcoli evidenziarono che sussisteva una probabilità minima, quasi nulla, che una particella alfa passando attraverso un foglio d'oro subisse diffusioni multiple aventi come risultato globale una deflessione a grandi angoli.
Quella appena raccontata è la premessa al sensazionale episodio che avvenne nel 1909, quando il giovane Ernest Marsden venne incaricato di verificare se le particelle alfa potessero essere diffuse a grandi angoli, con sorprendente risposta affermativa!

sabato 21 dicembre 2013

L'ATOMISMO NEL XVI E XVII SECOLO: I "MINIMA NATURALIA"

In questo post andremo a scoprire una teoria atomica antica e davvero poco conosciuta: quella dei "minima naturalia".
Il concetto di atomo, introdotto da Leucippo e Democrito, portato poi avanti da Epicuro e Lucrezio, venne totalmente ignorato nel corso del Medioevo.
In effetti, l'idea dell'atomo venne oscurata dalla teoria aristotelica della continuità della materia.
Per Aristotele (384 o 383 a.C. - 322 a.C.) una sostanza poteva essere infatti suddivisa all'infinito in particelle sempre più piccole e identiche fra loro.
Dunque Aristotele rigettava l'idea che la natura si basasse su un qualcosa di indivisibile come l'atomo congetturato dai suoi colleghi Leucippo e Democrito.
Aristotele giustificava la sua idea di continuità della materia sostenendo la non esistenza del vuoto (il cosiddetto horror vacui).
Per il filosofo l'essenza delle cose era data dal movimento: ogni corpo si muoveva perché, attraverso una spinta, veniva messo in moto da un altro corpo, il quale, a sua volta, subiva una spinta da un terzo corpo e così via, sino ad arrivare al primo motore o motore immobile o atto perfetto (entelécheia), rappresentato da Dio.
Dio, nella concezione aristotelica, era la sostanza immutabile ed eterna, il principio supremo dell'universo, il culmine logico su cui affondava le sue radici la macchina cosmica elaborata dal filosofo, e la spiegazione ultima del movimento e del cambiamento.
Un Dio non rappresentabile come una "persona" o un "ente assoluto" che ama il mondo e che con la propria volontà provvede a regolarlo secondo un piano provvidenziale.
Il Dio di Aristotele si discostava quindi da quello delle religioni monoteiste.
Esso era semplicemente il perno essenziale dell'architettura cosmologica aristotelica, una vera e propria chiave di volta, senza la quale l'intero sistema collasserebbe.
























Siccome l'essenza delle cose, per il filosofo, era data dal movimento, a sua volta dovuto al primo motore, Aristotele non riusciva a concepire dentro questo sistema la presenza del vuoto.
Sosteneva infatti che la velocità di un corpo variasse con il peso e dipendesse dalla resistenza del mezzo in cui si muoveva; ciò implicava che un corpo, nel vuoto, avrebbe avuto velocità infinita, indipendentemente dal suo peso, fenomeno contrario a quanto mostrava l'esperienza.
Se il vuoto non esisteva, allora la materia doveva essere continua, fatto che portava a concludere che gli atomi non potevano esistere, visto che tra 2 atomi ci sarebbe dovuto essere il vuoto a delimitarli.
La materia risultava dunque divisibile all'infinito, proprio perché era impossibile arrivare a porzioni di materia non più divisibili.
La divisione portava tuttavia a particelle di materia sempre più piccole fino a quando, se ulteriormente divise, perdevano le proprietà della sostanza originaria e non erano più parte di essa.
Le "qualità", ossia le caratteristiche fisiche di un composto chimico, dipendevano pertanto dalla sua "estensione".
Queste idee erano state un punto di riferimento filosofico fino all'inizio del XVI secolo.
Infatti, in cotal secolo si verificò una "battaglia filosofica", che persistette per ben 2 secoli, tra 2 differenti visioni dell'atomismo:

1) una di tipo meccanico (di cui fu promotore nientemeno che Cartesio), ereditata dall'antica filosofia degli empiristi greci;
2) l'altra ispirata alla concezione aristotelica della continuità della materia.

La vera vincitrice di tale confronto intellettuale sarebbe stata la teoria atomica alla base della chimica moderna.
Entrando nei dettagli di questo duraturo scontro filosofico, l'atomismo meccanico era una teoria generale del mondo fisico che si poggiava sull'esistenza di particelle minuscole, gli atomi, in movimento nel vuoto.
Questi atomi erano poi considerati immutabili e indivisibili.
A tale visione "classica" dell'atomo si contrappose appunto la concezione dei minima naturalia (versione latina del termine greco elachista), la quale era basata sia sulle idee di Aristotele prima illustrate, sia sull'idea dell'ilomorfismo, ovvero una concezione metafisica dei corpi visti come combinazione inseparabile di materia e forma.  

lunedì 16 dicembre 2013

CARNEVALE DELLA CHIMICA N.34 - 2ª CALL FOR PAPERS

Questa è la seconda chiamata per chi volesse partecipare all'edizione n.34 del Carnevale della Chimica, che si terrà proprio qui su Scienza e Musica il prossimo 23 dicembre.











Forza, mancano ancora 5 giorni al termine ultimo per l'invio dei contributi: le 23:59 del 21 dicembre.

lunedì 25 novembre 2013

CARNEVALE DELLA CHIMICA N.34 - 1ª CALL FOR PAPERS

Sono passati solo 2 giorni dalla pubblicazione del meraviglioso Carnevale della Chimica n.33, sul blog unpodichimica, da parte di Margherita Spanedda.
Un'edizione imperdibile, con un'introduzione a dir poco spettacolare susseguita da ottimi e variegati contributi su un tema splendido e dal carattere multidisciplinare: "La Chimica e le Muse".
Ora è tempo però di pensare anche all'edizione successiva, la numero 34.
Ebbene, con gran piacere vi annuncio che l'edizione di dicembre (precisamente il 23 dicembre) del Carnevale della Chimica sarà ospitata dal sottoscritto qui su Scienza e Musica.











Che tema avrò scelto questa volta?
In genere i temi scelti per i Carnevali su Scienza e Musica sono vastissimi.
Anche quello di questa edizione non sarà da meno.
La tematica portante (ma, come sempre, non vincolante) del Carnevale sarà infatti "Atomi, ioni e particelle".
È un tema amplissimo e alla portata di tutti.
Vi fornisco alcune tra le numerosissime interpretazioni possibili.

martedì 19 novembre 2013

IL PIOMBO: UN ELEMENTO CHIMICO TRA CREATIVITÀ E DISTRUTTIVITÀ

Il piombo (Pb) rappresenta l'elemento n.82 della tavola periodica.
Esso fa peraltro parte del gruppo 14 della stessa, gruppo che comprende, oltre al piombo, nientemeno che il carbonio, il silicio, il germanio e lo stagno.




















Il suo nome deriva dal latino plumbum, che presumibilmente proviene dal greco pélios, ossia "blu-nerastro", oppure dal sanscrito bahu-mala ("molto sporco").
Il piombo è un metallo tenero, denso, duttile e malleabile, che, appena tagliato, si presenta di colore bianco azzurognolo, mentre, esposto all'aria, tende ad assumere una colorazione grigio scuro.
La cosa interessante del piombo è che esso abbraccia l'intero spettro della creatività e della distruttività umane.
Che significa?
Lo scopo di questo articolo è proprio quello di illustrare brevemente le peculiarità e gli usi di questo importante elemento, analizzandolo a 360°, ovvero osservando sia i suoi aspetti positivi che quelli negativi.
La prima cosa che si può dire sul piombo è che esso viene visto come la gravità (sia fisica che intellettuale) fatta ad oggetto concreto ed è l'elemento chimico maggiormente associato alla morte.
Non a caso esso viene preso come riferimento in elementari interrogativi a trabocchetto relativi al peso, come "pesa più un chilo di piombo o un chilo di piume?" et similia.
Oppure si parla spesso di cielo plumbeo riferendosi non unicamente al suo colore.
L'immagine del cielo plumbeo, inconcepibile dal punto di vista gravitazionale, fa presagire qualcosa di peggio della semplice pioggia, richiamando alla mente il tragico destino di un mondo messo sottosopra.














Il legame del piombo con la morte è ben evidenziato dal fatto che, nella tradizione, per preservare i corpi dei papi e dei re, e assicurarsi che l'anima non fuggisse, venivano utilizzati sarcofagi di piombo.
Ad esempio, il cuore del re Roberto I di Scozia giace in uno scrigno di piombo nell'abbazia di Melrose, così come le membra del suo acerrimo nemico, re Edoardo I di Inghilterra, "riposano" a Westminster Abbey.
Non corrodendosi, il piombo protegge ciò che contiene in quanto crea uno strato superficiale che blocca gli attacchi chimici.
Ed è proprio tale sottile strato, sostanza peraltro usata dagli artisti con la denominazione "piombo bianco", che preserva i tetti di numerose chiese e cattedrali d'Europa.
Il "piombo bianco", chiamato anche biacca o cerussa, è in particolare un pigmento costituito da carbonato basico di piombo.
La sua formula bruta è: (PbCO3)2 · Pb(OH)2.
La biacca si presenta come una polvere bianca pesante, che unita con olio di lino cotto (100 parti di pigmento e 30 di olio) fornisce una pittura di ottimo potere ricoprente e di lunga durata.
Il bianco di piombo è stato utilizzato sin dai tempi antichi ed è stato addirittura l’unico bianco disponibile insieme al "bianco San Giovanni" (carbonato di calcio) fino al XIX secolo.
Plinio il Vecchio ne ha descritto non solo le proprietà ma anche il metodo di fabbricazione che sembra molto simile a quello usato dagli Arabi e dai Giapponesi.
Nel Medioevo la produzione di biacca, la quale veniva sfruttata anche come medicamento, era monopolizzata dagli Olandesi e dai Veneziani.
Nella seconda metà del XVIII secolo il chimico e mineralogista svedese Torbern Olof Bergman stabilì la vera composizione del pigmento e da allora si studiarono svariati metodi razionali per la fabbricazione industriale.
Successivamente, con l’inserimento in commercio del "bianco di zinco" (nel 1840 circa) e, nel XX secolo (1930 circa), del "bianco di titanio", il suo impiego è parecchio diminuito fino quasi a scomparire del tutto
Oggi viene usato esclusivamente da alcuni pittori particolarmente legati alla tradizione e, davvero raramente, in lavori di restauro.
Lo scarso utilizzo della biacca è dovuto specialmente alla sua elevata tossicità.
Ebbene sì, il piombo e tutti i suoi composti risultano estremamente tossici.
A dir la verità, esso è il prototipo del metallo pesante velenoso e, come il mercurio (suo vicino nella tavola periodica, che abbiamo analizzato qui), è stato responsabile di alcune tra le peggiori contaminazioni ambientali dell'era moderna (fino a pochi anni fa veniva tra l'altro utilizzato per migliorare le prestazioni della benzina).
Il piombo e i suoi composti presentano effetti tossici da accumulo, soprattutto nei bambini.
Nel sangue, livelli di 50 ppb (parti per miliardo) determinano un aumento della pressione sanguigna.
A 100 ppb si hanno già danni cerebrali e ai reni; a livelli maggiori di 800 ppb si può arrivare persino al coma e alla morte.
Il piombo interferisce infatti con la biochimica dell'eme nell'emoglobina del sangue (di emoglobina abbiamo parlato qui).
Si calcola che circa 200.000 bambini all'anno si ammalino per avvelenamento da piombo.
Tale problema è provocato fondamentalmente dall'ingestione da parte dei bambini di vernici contenenti pigmenti al piombo.
Le case maggiormente vecchie possono infatti contenere pitture a base di piombo bianco.
I sali di piombo presentano un gusto dolce, cosa che potrebbe spingere i bambini a succhiare gli oggetti verniciati.
Piombo e Saturnismo
Molti pittori, quali Van Gogh e Goya, erano soliti usare colori a base di piombo per la realizzazione delle loro opere.
La pazzia, la schizofrenia ed i disturbi mentali e psicologici degli stessi venivano attribuiti all'intossicazione da piombo, causata appunto dall'inalazione e dall'ingestione dei colori (sembra che Goya avesse persino l'abitudine di bagnare la punta del pennello con la saliva, non con l'acqua, ingerendo notevoli quantità di piombo che si accumulavano nell'organismo).
Dagli antichi romani fino quasi ai tempi odierni, il piombo è stato inoltre usato nelle tubazioni, incluse quelle atte al trasporto di acqua.
L'esposizione al piombo avveniva anche attraverso gli utensili da cucina e le pentole.
Nel periodo coloniale della storia degli Stati Uniti l'avvelenamento da piombo veniva diagnosticato come la causa del "mal di pancia secco" di cui soffrivano gli abitanti della Nuova Carolina, i quali erano soliti consumare il rum prodotto nel New England.
L'apparecchiatura per la distillazione aveva infatti componenti di piombo.
L'intossicazione da piombo dovuta all'esposizione professionale o accidentale assume peraltro una denominazione molto particolare, ossia saturnismo.
Il nome della malattia deriva dal dio romano Saturno, l'equivalente di Crono, dio del tempo, per i greci.
Gli alchimisti ritenevano infatti che il dio Saturno avesse come elemento associato proprio il piombo.
I sintomi classici del saturnismo sono nausea, vomito, dolori addominali, irritabilità, mal di testa, iperattività e altri ancora.
Probabilmente pochi lo sanno, ma questi sono alcuni sintomi della grave malattia (oltre alla sordità) che afflisse nientemeno che Ludwig van Beethoven.

lunedì 11 novembre 2013

GEORGE BOOLE E LA SUA ALGEBRA DELLA LOGICA

"Algebra" è una parola che è già apparsa numerose volte all'interno di questo blog.
C'è stato persino, proprio qui su Scienza e Musica, un Carnevale della Matematica, il n.56, incentrato su "algebra, algebre e storia dell'algebra".
In quella occasione avevamo puntualizzato sul fatto che esistono, oltre alla nota "algebra elementare", tantissime algebre differenti.
Alcune di queste algebre portano peraltro i cognomi dei loro geniali ideatori.
Tra queste la più famosa è certamente l'algebra di Boole.
In questo post andremo a scoprire la non facile vita del matematico George Boole (1815-1864) e ad introdurre, nel modo più semplice possibile, le basi essenziali della sua algebra, un'algebra che, come vedremo, risulterà strettamente legata alla logica.






 













George Boole nacque il 2 novembre 1815 a Lincoln, nell'Inghilterra orientale.
George era il primo dei 4 figli (George, Mary Ann, William e Charles) di John Boole e Mary Ann Joyce.
John era un semplice bottegaio, ma nutriva un grosso interesse nei confronti delle scienze e in particolare verso le applicazioni della matematica agli strumenti scientifici.
Mary Ann era invece una cameriera, la quale sposò John Boole il 14 settembre 1806.
Dopo il matrimonio, i 2 sposini si trasferirono appunto a Lincoln, ove John aprì un negozio per esercitare la professione di calzolaio.
Tuttavia, egli non si dedicò con il massimo impegno al suddetto lavoro, in quanto era distratto dai suoi interessi scientifici.
Basti pensare che nella vetrina della sua bottega era esposto con orgoglio un telescopio che lui stesso aveva costruito.
C'è dunque da sottolineare che George nacque in una situazione non particolarmente agiata.
Gli scrittori del tempo evidenziavano sempre che essere figlio di un piccolo commerciante significava essere predestinato a un'umile e difficile vita.
La classe sociale alla quale apparteneva il padre di George veniva trattata con un disprezzo ancora maggiore di quello riservato alle sguattere o ai lacché.
Le "classi infime" praticamente non esistevano agli occhi delle "classi superiori".
Ergo, si dava per scontato che George si sarebbe limitato ad apprendere le nozioni fondamentali e non trasgredire i rigidi vincoli imposti da tale disprezzo classista.
Le fatiche e le sofferenze che dovette passare George per cercare di istruirsi adeguatamente e ottenere una posizione migliore di quella a cui risultava predestinato sono paragonabili a un percorso di espiazione dei peccati nel Purgatorio dantesco.
George innanzitutto, quando aveva meno di 2 anni, frequentò una scuola a Lincoln per i neonati dei commercianti.
Dopo un anno venne spostato a una scuola commerciale guidata da Mr Gibson, un amico di John Boole, dove rimase fino ai 7 anni d'età.
I primi rudimenti di matematica gli vennero tuttavia impartiti dal padre stesso.
Superati i 7 anni d'età, il piccolo George poté frequentare una scuola elementare e i suoi interessi confluirono verso le lingue.
C'è però da dire che le scuole dove i giovani signori imparavano a spingersi l'uno contro l'altro per prepararsi ai loro futuri ruoli di direttori delle organizzazioni industriali non accettavano ragazzi come Boole.
La sua scuola nazionale era incaricata di mantenere il povero al suo vero posto, al suo misero livello di istruzione.
A quei tempi una leggera conoscenza del latino e del greco rappresentava un segno distintivo dei "gentleman".
In verità, davvero pochi di questi cosiddetti gentleman conoscevano abbastanza il latino per saperlo leggere senza traduzione affiancata.
Tuttavia, la proclamata, seppur inesistente, conoscenza della grammatica latina designava un segno di distinzione, mentre la sintassi imparata a memoria veniva ritenuta alla stregua di una disciplina mentale della massima utilità per prepararsi al possesso e all'amministrazione dei beni fondiari.
Ovviamente, nella scuola elementare in cui Boole fu ammesso, il latino non era previsto.
Pensando, ingenuamente, che la sola non conoscenza del latino e del greco fossero la causa delle sue difficoltà, egli si adoperò per imparare tali 2 lingue antiche.
In un primo momento, lo studio del latino venne effettuato da autodidatta, accompagnato dall'incoraggiamento del padre, il quale, però, non poteva fornire al figlio un aiuto concreto in quanto non conosceva il latino.
Fondamentale in tal direzione fu la conoscenza di un modesto librario, amico del padre, che insegnò al giovane Boole i primi elementi di grammatica latina.
Le difficoltà non erano poche; non è per niente facile, per un ragazzo di 12 anni, assimilare i Commentari di Cesare.
Comunque, vennero raggiunti risultati notevoli: a 12 anni Boole fu in grado di tradurre un'ode di Orazio in inglese e in versi, cosa che spinse il padre a far stampare la traduzione nel giornale locale.
La suddetta pubblicazione fu una lama a doppio taglio per il piccolo George.
Se da una parte tale pubblicazione fece rumore nell'ambito della scuola, dall'altra parte scatenò le perplessità di un professore di studi classici, il quale negò con convinzione che un ragazzo di quell'età fosse capace di effettuare una simile traduzione.
Peraltro, Boole si sentì ulteriormente umiliato quando vennero fatti notare errori nella sua traduzione.
Tutto questo, tuttavia, lo spinse ancor più a perfezionare la sua istruzione.
Aveva infatti cominciato, sempre da autodidatta, lo studio del greco e da allora decise che o sarebbe pervenuto alla perfezione, oppure avrebbe lasciato perdere le lingue antiche.
Si mise dunque a studiare, da solo, instancabilmente per 2 anni, il greco e il latino, giungendo ad un ottimo livello di preparazione.
Dopodiché dal 10 settembre 1828 iniziò a frequentare l'istituto commerciale Bainbridge.
Anche questa scuola non forniva corsi che il giovane avrebbe sperato di seguire.
Ancora spinto dalla passione per le lingue, Boole approfondì, a parte, lo studio del francese e del tedesco, lingue in cui, molti anni dopo, avrebbe redatto importanti lavori matematici di ricerca.
A 16 anni si promise di aiutare in qualche modo i suoi poveri genitori - il padre aveva dovuto chiudere la bottega e la sua famiglia si ritrovava in precarie condizioni economiche - e capì che l'insegnamento rappresentava il modo più rapido e sicuro per ottenere un salario fisso.
In primo luogo, per 2 anni, insegnò presso la piccola Heigham's School di Doncaster, a circa 65 chilometri da casa.
Probabilmente venne licenziato per il suo comportamento un tantino irreligioso: studiava matematica anche di domenica, e persino dentro la cappella!
Va sottolineato che Boole non appartenne mai a una vera e propria confessione religiosa, ritenendo impossibile l'accettazione della divinità di Cristo, tuttavia, a modo suo, aveva una forte religiosità.
Per un certo periodo aveva nutrito perfino l'idea di diventare pastore anglicano, ma la abbandonò in parte per le sue convinzioni, ma soprattutto per sostenere la famiglia travolta dalle difficoltà economiche.
Tuttavia, i 4 anni durante i quali si era preparato privatamente, con dure privazioni, alla carriera ecclesiastica a cui aspirava, non furono interamente spesi vanamente, in quanto gli dettero l'assoluta padronanza del francese, del tedesco e dell'italiano.
Oltre a ciò, l'altro interesse che man mano si stava insinuando sempre di più nella sua mente era la matematica.
Il primo libro di matematica avanzata che Boole lesse fu il Traité élémentaire de calcul differéntiel et du calcul intégral (1797-98) di Sylvestre François Lacroix.
Diversi anni dopo, ricordando quella stagione della sua vita, spiegò che per chi, come lui, aveva pochissimi soldi da spendere in libri, quelli di matematica erano l'investimento migliore, poiché duravano più degli altri.
Era solito inoltre raccontare di come, all'epoca della scuola, gli fosse venuta un'ispirazione: mentre camminava in un prato, gli era balenata l'idea che doveva essere possibile esprimere le relazioni logiche in forma algebrica.
Una sorta di "illuminazione sulla via di Damasco", scriverà il suo biografo MacHale, i cui frutti si sarebbero avuti solo molti anni dopo.

giovedì 3 ottobre 2013

CARNEVALE DELLA LETTERATURA #4: IL TEMPO


"Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d'averne che basti, quanto più se ne gitta, tanto par che n'avanzi." Giacomo Leopardi, Lo Zibaldone


Benvenuti alla 4ª edizione del Carnevale della Letteratura!
La tematica di questa edizione è davvero ampia e suggestiva: "il tempo".
Come tradizione nei Carnevali su Scienza e Musica, la presente edizione verrà aperta da una ricca introduzione sul tema prescelto (con particolare riferimento al tempo dal punto di vista cronologico), a cui seguiranno ovviamente i contributi dei vari partecipanti alla kermesse.
Prima dell'introduzione, tuttavia, vorrei segnalarvi un ottimo prequel scritto da Marta Saponaro, sul suo blog LETTORENONPERCASO, che vi consiglio caldamente di leggere.
Signore e signori, la "chilometrica" introduzione parte subito dopo il "conto alla rovescia musicale".



Da migliaia di anni numerosi intellettuali hanno cercato di rispondere a una domanda apparentemente semplice ma, in verità, assai complessa: che cos'è il tempo?
Già nel 350 a.C., Aristotele, nell'opera intitolata Fisica, si era chiesto se "il tempo appartiene alla categoria di ciò che esiste o a quella di ciò che non esiste".
Siamo nel 2013 e ancora oggi risulta impossibile dare una definizione univoca di tempo, dato che tal concetto presenta una moltitudine di sfaccettature differenti.
Una definizione univoca, da un punto di vista fisico, si trova infatti solamente quando si parla di intervallo di tempo (o durata), del quale la fisica fornisce una definizione operativa.
Trattasi infatti di un periodo limitato di tempo misurato da un apposito strumento, ad esempio un cronometro.
Infatti, immaginando per esempio la corsa dei 100 metri, l'avvio del cronometro è simultaneo all'inizio dell'intervallo di tempo da misurare, cioè alla partenza dell'atleta, mentre il suo arresto indica la fine dell'intervallo di tempo considerato, ovvero l'arrivo alla meta da parte del corridore.











Ma basta spostarsi in un differente ambito culturale e subito le cose cambiano radicalmente.
Nell'ambito prettamente letterario, il termine "durata" possiede un significato totalmente diverso!
Esso sta infatti ad indicare il rapporto sussistente fra il periodo di tempo necessario al compiersi degli eventi della storia (chiamato tempo della storia) e lo spazio effettivo a loro dedicato nel racconto (denominato appunto tempo del racconto).
Questo spazio, in particolare, si misura in numero di righe di testo, dunque in secondi, minuti o ore di lettura.
D'altronde, nei racconti letterari accade spesso che una vicenda lunghissima nel tempo reale sia condensata in pochissime righe, oppure, può accadere l'esatto contrario, ossia che vengano dedicate pagine o interi capitoli a un evento che, almeno nella realtà, si verifica in tempi effimeri.
Esistono pertanto narrazioni che possono essere denominate "veloci" e narrazioni "lente", narrazioni tese e incalzanti oppure distese e ridondanti.
Ne consegue che ogni produzione narrativa possiede un proprio ritmo, un ritmo che può mutare a seconda delle scelte dello scrittore inerenti alle forme di durata.
Esistono 4 fondamentali forme della durata:

1) Il sommario. Trattasi della narrazione concisa, in poche righe, pagine o capitoli, di avvenimenti che se accadessero nella realtà necessiterebbero di un tempo ben maggiore di quello necessario per la lettura. Ne deriva quindi che, nel sommario, il tempo del racconto è inferiore al tempo della storia. Esistono tanti sommari, quelli che sintetizzano eventi di pochi minuti o ore, così come quelli che coprono tempi assai prolungati, come anni o decenni.
2) L'ellissi. All'interno di una narrazione può accadere di imbattersi in dei veri e propri "buchi". In pratica, il lettore non viene informato in nessun modo riguardo a quanto è accaduto in un determinato periodo di tempo, che non viene riassunto, bensì proprio "saltato". Questi buchi narrativi sono chiamati rigorosamente ellissi ed in esse il tempo del racconto è pari a 0, in quanto non esiste narrazione dei fatti concernenti quel periodo di tempo.
3) La scena. Nella scena il tempo del racconto risulta esattamente uguale al tempo della storia. A giustificare ciò, basti pensare che "scena" è un termine preso in prestito dal linguaggio teatrale.
4) La pausa. La pausa è quella forma della durata in cui il tempo del racconto è maggiore di quello della storia. Questo significa che, nella pausa, il racconto tende a dilatarsi, indugiando nella descrizione dei personaggi, degli ambienti, delle situazioni, oppure lascia spazio a lunghe riflessioni dei personaggi o del narratore.

Indicando con Tr il tempo del racconto e con Ts il tempo della storia, possiamo riassumere il tutto facendo uso di un pizzico di matematica:









Ma sarebbe riduttivo affermare che in una narrazione lo sconvolgimento del tempo possa avvenire solamente mediante le 4 forme della durata sopra elencate.
Infatti, nella narrazione letteraria molto spesso gli eventi non si susseguono in ordine cronologico, ma la freccia del tempo va avanti e indietro a piacimento del narratore.
La successione degli avvenimenti o azioni che segue l'ordine cronologico e i rapporti di causa-effetto viene indicata con il termine tecnico fabula.
A differenza di quanto accade nella vita reale, dove la vita di ogni individuo deve per forza accordarsi con la fabula, nei testi letterari il narratore, per rendere maggiormente avvincente il racconto e generare un effetto sorpresa, spesso decide di abbandonare l'ordine cronologico degli eventi, stravolgendo l'ordine lineare della storia.
Ciò significa che l'intreccio, ossia la disposizione che i fatti della storia hanno nel testo narrativo, spesso non coincide con la fabula.
Ma come avvengono, nello specifico, queste manipolazioni del tempo da parte del narratore?
Semplice, attraverso i procedimenti (anacronie) di flashback e flashforward.
Il flashback, chiamato anche retrospezione o analessi, è un'alterazione dell'ordine cronologico che consiste nel tornare indietro nel tempo, per far osservare al lettore fatti avvenuti prima rispetto al presente della storia.
Il flashforward, detto anche prolessi, è invece il procedimento opposto del flashback ed un tantino più raro.
Esso consiste nello svelare anticipazioni di fatti che accadranno dopo rispetto al presente della storia.
Dirigiamoci adesso, dopo aver constatato come la letteratura può far ciò che vuole sullo scorrere del tempo, verso la questione cruciale, la visione delle diverse concezioni di tempo (cronologico).
C'è da notare che la lingua italiana complica ulteriormente la già spinosa questione, dato che la parola "tempo" oltre a designare il tempo cronologico, indica anche quello atmosferico, a differenza di quanto accade, ad esempio, nell'inglese, dove troviamo una netta distinzione mediante le parole time (tempo cronologico) e weather (tempo meteorologico).


















Detto ciò, il tempo, nella sua accezione cronologica, è stato uno dei temi più dibattuti in assoluto da scienziati, filosofi, artisti, letterati e personalità religiose.
Una nozione considerata sin dall'antichità così importante al punto che i greci attribuirono al signore dei Titani - padre di Zeus, Poseidone ed Ade - Crono, proprio il dominio sul tempo.
Andiamo allora a scoprire alcune importanti visioni della nozione di tempo che si sono susseguite nel corso della storia.

lunedì 30 settembre 2013

CARNEVALE DELLA LETTERATURA N.4 - 2ª E ULTIMA CALL FOR PAPERS

Questa è la seconda e ultima chiamata per chi desiderasse partecipare al Carnevale della Letteratura n.4.

La deadline per l'invio dei contributi è molto vicina: le 23:59 del 1° ottobre.
Il tempo rimasto per partecipare è poco, ma c'è!
Ed il tema del Carnevale è proprio il tempo.

lunedì 23 settembre 2013

IL TIME MUSEUM

Erano le 6 di mattina di un lunedì d'ottobre.
Giovanni si era svegliato molto presto eccitato per ciò che lo avrebbe atteso in quella giornata.
Lui e i suoi compagni avrebbero visitato, in gita con la scuola, il maestoso Museo di Storia Naturale di New York.
Giovanni ne era rimasto affascinato sin da quella volta in cui aveva guardato alla tv il film Una notte al museo con Ben Stiller, ma non aveva mai avuto l'occasione di visitarlo personalmente, almeno fino a quel fatidico giorno, visto che si era trasferito da poco negli Stati Uniti.




















Il ragazzo si sbrigò a fare colazione e vestirsi per essere perfettamente puntuale all'appuntamento dinanzi alla scuola con tutti i suoi compagni e i professori.
Il trasporto degli studenti sarebbe avvenuto grazie ad un autobus che li avrebbe condotti al museo.
Arrivati dopo qualche ora di viaggio, gli studenti si trovarono davanti a una monumentale struttura architettonica, sormontata da una scritta emblematica: "Truth Knowledge Vision".



 

 













I prof fecero l'appello per controllare che tutti fossero presenti e condussero gli allievi all'interno del museo.
Subito, all'entrata, la scolaresca si trovò davanti una guida pronta ad accompagnarli e illustrare le curiosità relative a tutto quel ben di dio, messo in mostra dal museo, da ammirare e contemplare.
Una fermata lunga venne effettuata di fronte al colossale fossile di Tyrannosaurus rex, forse il pezzo che più fece rimanere di stucco i ragazzini, totalmente interessati alle spiegazioni della guida, a differenza di quanto avveniva nelle tradizionali e noiose lezioni in classe.



 












Giovanni si sforzava di comprendere il più possibile, giacché non aveva ancora acquisito una totale padronanza dell'inglese.
Improvvisamente la luce andò via.
Il buio prese il sopravvento.
I professori gridarono di mantenere la calma e di rimanere tutti uniti, ma Giovanni non aveva dato ascolto alle indicazioni dei suoi insegnanti.
Gli era parso di vedere una strana luce provenire alla sua destra, una luce che aveva completamente catturato la sua attenzione e di cui nessun altro si era accorto.
Guidato dalla luce, Giovanni camminò a lungo per il Museo sino ad arrivare ad una porta.
Era blindata; l'unico modo in cui poteva essere aperta consisteva nel digitare una combinazione segreta di numeri su un tastierino digitale attaccato alla parete prossima alla porta.
Giovanni non conosceva ovviamente la combinazione segreta, ma, all'improvviso, una sequenza di numeri si illuminò di rosso: 3-1-4-1-5.
Giovanni premette questi numeri in sequenza e, come per magia, la porta si spalancò.

mercoledì 4 settembre 2013

CARNEVALE DELLA LETTERATURA N.4 - 1ª CALL FOR PAPERS

Come annunciato in precedenza qui, il 3 ottobre il blog Scienza e Musica ospiterà la quarta edizione del Carnevale della Letteratura.
Quella che state leggendo è appunto la 1ª call for papers, cioè la "chiamata alle tastiere" per coloro che desiderino partecipare.
















Prima di procedere con i dettagli, vi consiglio caldamente, per chi non l'avesse ancora fatto, di andare a visionare il Carnevale della Letteratura n.3 (incentrato sul suggestivo tema della notte), magnificamente organizzato da Maria Cuccaro su SkipBlog
Passiamo dunque a ciò che concerne la quarta edizione.
Innanzitutto, ricordo che il tema (vincolante, per via delle regole del Carnevale) della suddetta edizione sarà "il tempo".


















Che cosa c'entra il tempo con la letteratura?
I collegamenti possono davvero essere innumerevoli.
Infatti, la parola "tempo" ha così tante sfaccettature che chiunque potrà trovare la prospettiva che preferisce per legare il tempo alla letteratura.
Nel Carnevale della Letteratura sono graditissimi racconti originali, poesie, articoli divulgativi sulla storia della letteratura, post che collegano la letteratura ad altri ambiti del sapere e così via.

Potreste magari illustrare dei collegamenti (riguardanti il tempo) tra fisica e letteratura, tra musica e letteratura, tra arte e letteratura, ecc.
Non sussistono limiti a ciò che la tematica del tempo può permettere di far scaturire dalle vostre menti.
Potreste illustrare come alcuni procedimenti tipici della narrazione letteraria stravolgono completamente la naturale visione del tempo che passa in maniera costante e lineare (per esempio, in letteratura, una singola giornata può durare svariati capitoli di un libro e un intero anno trascorrere invece in poche righe).

martedì 20 agosto 2013

IL RAME, LE LEGHE E I BATTERI

Il rame (Cu) è l'elemento numero 29 della tavola periodica degli elementi.
Esso, assieme a oro ed argento, fa parte della speciale categoria dei metalli da conio, così denominati poiché utilizzati sin dai tempi antichi nella fabbricazione delle monete.
Tutti i metalli da conio risultano estremamente duttili, malleabili e resistenti alla corrosione, oltre ad essere magnifici conduttori di elettricità (per i cavi elettrici si usano infatti grandi quantità di rame) e calore.
Il rame, in particolare, è un materiale davvero fantastico.
Tantissimi elementi chimici, per quanto utili e straordinari, nascondono dei lati oscuri, degli aspetti negativi, come l'elevata tossicità o esplosività.
Il rame, invece, non ha praticamente alcun difetto: diventa tossico soltanto se si ingeriscono, ad esempio, ingenti quantità di solfato di rame (CuSO4), oppure se si ha l'abitudine di mangiare cibi acidi conservati a lungo in contenitori di rame.
Il rame è poi simultaneamente abbastanza morbido da poter essere lavorato con attrezzi a mano e abbastanza duro da esser sfruttato per fabbricare oggetti utili, soprattutto quando è in lega con lo stagno o lo zinco per dar vita, rispettivamente, al bronzo e all'ottone.

Drago di bronzo















Bronzi di Riace
























A proposito di ottoni:







Ma precisamente, cos'è una lega?
Una lega è semplicemente una miscela di un metallo "base" con uno o più elementi (metallici o non metallici) detti "alliganti".
La presenza dell'alligante, anche in piccolissime percentuali, va a modificare, migliorandole, le proprietà fisiche e meccaniche del metallo di base.
Per esempio, l'acciaio (lega ferro-carbonio) possiede caratteristiche fisiche e meccaniche di gran lunga superiori a quelle del ferro puro.
In generale, le leghe vengono preparate in 2 modalità differenti:

1) per fusione degli elementi costitutivi, fusione seguita da solidificazione per raffreddamento della massa fusa omogenea;
2) per sinterizzazione, ovvero sottoponendo una miscela di metalli in polvere ad elevate pressioni, ad alte temperature. 

Quest'ultimo metodo, in particolare, viene sfruttato quando gli elementi che andranno a costituire la lega presentano punti di fusione assai elevati.
Trattasi del caso, ad esempio, di leghe a base di carburi di tungsteno (W), titanio (Ti) e tantalio (Ta).
Anche l'oro dei gioielli è, in verità, una lega.
L'oro che viene acquistato usualmente in gioielleria non è puramente oro, cioè oro a 24 carati, bensì appunto una lega costituita dall'oro per una determinata frazione, come, per esempio, 18/24, 14/24 o 9/24.
Dunque, la parola "carati" si riferisce alla quantità effettiva di oro che costituisce il dato gioiello.
Il cosiddetto oro "giallo" a 18 K (simbolo dei carati) è infatti formato per 18/24 da oro, mentre i rimanenti 6/24 non sono altro che rame o argento.
Sussiste un'altra fondamentale classificazione da illustrare relativamente alle leghe.
Infatti, le leghe binarie (formate da 2 elementi) si possono suddividere in 3 classi generali:

1) soluzioni solide;
2) miscele eterogenee;
3) composti intermetallici.

SOLUZIONI SOLIDE:

Nelle soluzioni solide un elemento risulta generalmente visto alla stregua di "soluto" e l'altro come "solvente".
Così come accade nelle soluzioni di liquidi, gli atomi del soluto vengono dispersi in modo casuale e uniforme all'interno del solido (solvente) affinché la struttura risultante risulti omogenea.
Le soluzioni solide vengono infatti chiamate anche leghe omogenee.
Ne sono esempi l'ottone, il bronzo e le varie leghe da conio.
Esistono però delle differenze non insignificanti rispetto alle soluzioni liquide.
Infatti, per le soluzioni solide, sussistono delle limitazioni sulla quantità relativa di atomi del solvente e del soluto dovute al fatto che, per formare una soluzione, gli atomi del soluto devono essere incorporati nella struttura (la quale deve essere conservata) del cristallo originale di metallo solvente.
In particolare, le soluzioni solide si possono generare in 2 modalità:

1) con gli atomi del soluto come atomi interstiziali;
2) con gli atomi del soluto come atomi sostituzionali nel reticolo cristallino.

Ebbene, nelle leghe interstiziali gli atomi del soluto occupano delle particolari cavità, ossia le minuscole "buche" tra un atomo del solvente e l'altro.
Affinché gli atomi del soluto riescano ad occupare tali posizioni, essi devono risultare ovviamente più piccoli degli atomi del metallo solvente che costituiscono il reticolo.
La seguente immagine rende tutto più chiaro:














Al contrario, nelle leghe di sostituzione gli atomi del soluto vanno semplicemente a sostituire alcuni atomi del solvente nel reticolo cristallino.
Per far sì che ciò effettivamente si verifichi, gli atomi del soluto e del solvente devono avere dimensioni molto simili.
Ed ecco l'immagine illustrativa pure del suddetto caso:














MISCELE ETEROGENEE:

Se le condizioni inerenti alle dimensioni degli atomi non risultano soddisfatte, allora è probabile che la lega formi una miscela eterogenea.
Le leghe eterogenee, come quelle dei saldatori, a base di stagno e piombo, oppure come l'amalgama di mercurio usato per le otturazioni delle carie dentali (ne abbiamo parlato qui), sono caratterizzate appunto da una miscela di fasi cristalline di varia composizione.

COMPOSTI INTERMETALLICI:

I composti intermetallici sono composti con un rapporto stechiometrico ben definito (generalmente insolito e differente dal rapporto basato su regole di legame chimico) tra alligante e metallo base, rapporto così preciso che tali leghe presentano una formula bruta.
Esempi di composti intermetallici sono CuAl, MgPb e AuCu.

sabato 17 agosto 2013

AD OTTOBRE, SU SCIENZA E MUSICA, CARNEVALE DELLA LETTERATURA N.4

Sono lieto di annunciarvi che il 3 ottobre il blog Scienza e Musica ospiterà il 4° Carnevale della Letteratura.
Il Carnevale della Letteratura è un'iniziativa nata grazie a Bernardo R. (autore del blog Il gloglottatore) e Spartaco Mencaroni (autore del blog Il coniglio mannaro).












Alla stregua dei Carnevali scientifici, il Carnevale della Letteratura è un evento che si tiene ogni mese, nello specifico il 3 di ogni mese, e che riunisce in unico post su un blog i contributi dei svariati autori che abbiano desiderio di parteciparvi.

venerdì 26 luglio 2013

GLI SPETTACOLARI VORTICI DI VON KÁRMÁN

Uno dei fenomeni più affascinanti e meravigliosi della Fisica è sicuramente quello dei vortici di von Kármán.
Trattasi di un fenomeno poco conosciuto inerente alla meccanica dei fluidi.
Immaginiamo di voler determinare il flusso a bassa velocità di un fluido pressoché incomprimibile attorno ad un cilindro.
Ricordo che il flusso, in parole semplicissime, è la quantità di una grandezza (ad esempio, la massa o il calore) che attraversa una certa superficie nell'unità di tempo.
Nel post "Il campo gravitazionale: il teorema di Gauss" abbiamo analizzato, per esempio, il flusso del campo gravitazionale.
Cosa significa invece fluido incomprimibile (o incompressibile)?
Per chi non lo sapesse, significa semplicemente che applicando una certa pressione sulla sua superficie il volume rimane inalterato.
Un esempio di fluido incomprimibile è l'acqua.
Esiste il famoso esperimento della siringa, utile per spiegare l'incompressibilità dell'acqua.
Prendete una siringa (senza ago) e inserite al suo interno un po' d'acqua.
Dopodiché tappate il foro con una mano e spingete con l'altra mano il pistone della siringa.
Noterete che anche applicando sullo stantuffo una grande forza, non riuscirete in alcun modo a far diminuire il volume (o, analogamente, la densità) dell'acqua.



















Prima di arrivare a trattare le peculiarità del flusso di un fluido incompressibile intorno a un cilindro (e di introdurre i vortici di von Kármán), dobbiamo fare altre premesse di fondamentale importanza.

martedì 23 luglio 2013

0,99999999.... = 1, LA DIMOSTRAZIONE BASATA SULLA SERIE GEOMETRICA

Il fatto che un numero decimale illimitato periodico semplice, 0,99999999...., possa essere uguale ad un numero "puro", naturale, ovvero 1, è una questione alquanto curiosa ed interessante da approfondire.





Un approfondimento è stato compiuto di recente dalla prof. Annarita Ruberto, sul suo blog Matem@ticaMente, in uno splendido racconto matematico che vi consiglio vivamente di leggere (cliccate qui).
Lo scopo del presente post è quello di fornire un'ulteriore dimostrazione del fatto che 0,99999... sia effettivamente equivalente a 1, almeno in Matematica.
Tale dimostrazione si baserà sul concetto di serie geometrica.
Abbiamo già incontrato il concetto matematico di serie, anche in un racconto su un immaginario "Hotel Calculus".
Ricordo che una serie è una somma infinita di numeri e che il "cuore" di una serie è una certa successione, detta termine generale della serie, la quale precisa i numeri che vengono sommati.















Ad esempio, data la successione


 

La serie che presenta il suddetto termine generale è quella che segue:





Ma che cos'è la serie geometrica?
Niente di complicato! Ve la faccio vedere:





Come potete osservare, ogni termine della serie è multiplo del precedente di un fattore x, un numero chiamato ragione della serie geometrica.
Questa ragione x è importantissima perché fa capire il carattere della serie geometrica, cioè la sua tendenza a convergere a un numero finito o a divergere all'infinito.
Andiamo a scoprire i vari casi.

domenica 21 luglio 2013

IL MERAVIGLIOSO HOTEL CALCULUS

Era una notte d'estate, calda, afosa.
Charlie non riusciva a prendere sonno; ogni minuto cambiava il suo fianco d'appoggio al letto, compiendo rotazioni di 180 gradi, e cercando disperatamente di avere accesso al mondo dei sogni. Niente da fare.
Inquieto, decise di alzarsi per bere un po' d'acqua fresca, al fine di rigenerare le sue membra sfiancate dal caldo e dall'insonnia.
D'un tratto un rumore curioso balenò alle sue orecchie. Il ragazzo decise di investigare.
Ancora in pigiama, uscì dalla sua stanza d'albergo, attirato da quel suono indecifrabile.
Percorse tutto il corridoio; ogni passo che compiva lo portava sempre più prossimo alla misteriosa meta, dato che il suono si faceva sempre più acuto, a causa dell'effetto Doppler.
Quando arrivò in fondo, Charlie non poté credere ai suoi occhi: le scale e l'ascensore erano scomparsi. Al loro posto era apparsa una grande parete, ma non una parete normale.
Nel suo baricentro si stava generando un cunicolo spazio-temporale, una sorta di wormhole che produceva nell'aria un suono troppo singolare per poter essere descritto da mente umana.












Charlie impiegò alcuni minuti per riprendere il senno di fronte a tale visione, la quale sembrava uscita da un libro di fantascienza.
La sua profonda curiosità prevalse però sulla paura; si gettò all'interno del fantasmagorico tunnel.
Una sensazione di vuoto, come quando si perdono i sensi, lo attanagliò per alcuni secondi.
Poco dopo si ritrovò, con suo grande stupore, di nuovo in hotel.
Era tutto identico a prima, o quasi. Sulle porte delle camere non apparivano più semplici numeri cardinali, bensì formule complesse e denominazioni di matematica avanzata.
Ogni porta aveva già inserita nella serratura la sua chiave di riferimento, come se aspettasse che qualcuno la aprisse e osservasse ciò che occultava alla vista.
Charlie rimase stupefatto dalla quantità di matematica che riempiva l'intero albergo. Decise fermamente di aprire una di quelle porte che lo avrebbero condotto chissà dove.

sabato 20 luglio 2013

LA CHIMICA DEL POLLO ARROSTO E DEGLI AUTOABBRONZANTI

In estate molti amano andare al mare a prendere il sole e sfoggiare la propria abbronzatura.















C'è anche chi, tuttavia, utilizza dei specifici prodotti, gli autoabbronzanti, per ottenere una pelle maggiormente colorita senza esporsi alla luce del sole.
Ebbene, il meccanismo alla base degli autoabbronzanti è nientemeno che di natura chimica ed è simile alla reazione che avviene sulla superficie di un dolce quando cuoce nel forno, oppure su quella del pollo arrosto.




















In cucina tali reazioni di brunitura vengono dette reazioni di Maillard.
Esse furono scoperte per puro caso dal chimico e fisico francese Louis-Camille Maillard (1878-1936).




















Costui, a dispetto di quanto si possa pensare, non lavorò mai con gli alimenti.
Maillard era, al contrario, profondamente interessato alla biochimica delle cellule viventi.
Il suo lavoro risultava focalizzato su come gli amminoacidi (di amminoacidi abbiamo parlato qui) e gli zuccheri, entrambi presenti nelle cellule, potevano reagire fra loro.  
Egli trovò che alcune sostanze proteiche assumevano ad elevate temperature e in presenza di zuccheri una colorazione dorata.
La suddetta scoperta venne pubblicata, nel 1912, in un articolo sul Journal de Physiologie intitolato L'azione degli zuccheri sugli amminoacidi.
Tuttavia Maillard morì, nel 1936, nell'anonimato, senza aver completato il suo lavoro sulle proteine e, soprattutto, senza aver potuto osservare le svariate applicazioni della propria scoperta, dalla cucina alla lotta contro il diabete, dagli studi sull'invecchiamento al settore petrolifero.
L'applicazione maggiormente conosciuta è certamente quella relativa alla cucina.
Molti anni dopo la sua morte, ci si accorse che tutti i sapori della carne che si sviluppano durante la cottura sono dovuti a particolari reazioni degli amminoacidi con gli zuccheri.
Il lavoro pionieristico di Maillard ha fatto sì che gli scienziati decidessero di denominare tali complesse reazioni col suo nome.
Le suddette reazioni sono veramente molto complicate e, peraltro, le loro caratteristiche non sono ancora perfettamente note, nonostante i numerosi studi scientifici a riguardo, tra cui quelli di Mario Amadori (1886-1941), professore di chimica farmaceutica dell'Università di Modena.
Ma perché tali reazioni sono così complesse?
Perché ci sono tanti amminoacidi e zuccheri che possono reagire fra loro e poiché, all'interno della reazione d'accoppiamento di un amminoacido con il corrispondente zucchero, i prodotti finali dipendono da vari fattori, tra cui la temperatura, l'acidità dell'ambiente e la presenza di altri componenti chimici.
Però è proprio tale elefantiaca complessità ad offrire al cuoco un ricco ventaglio di interessanti possibilità.