martedì 26 giugno 2012

LE FORZE DELLA NATURA: VULCANI

Quali sono i fenomeni naturali più devastanti, ma allo stesso tempo più spettacolari?
Risposta molto semplice: le eruzioni vulcaniche!












La prima domanda a cui dobbiamo rispondere è dunque: cosa sono i vulcani?
Non è sicuramente una domanda a cui si può dare una risposta secca (almeno per i pignoli come me!).
Possiamo innanzitutto definirli in maniera banale alla stregua di montagne che sputano fuoco.
Da qui possiamo già introdurre termini un po' più rigorosi: sono rilievi montuosi che, attraverso eruzioni, determinano la fuoriuscita di lava (e altri materiali piroclastici), la quale, nelle profondità del mantello terrestre, assume la denominazione di magma.
In realtà, come vedremo, non tutti i vulcani possono essere visti alla stregua di montagne.
Approfondiamo innanzitutto l'argomento del magma.
Un magma è, dal punto di vista chimico, un sistema estremamente complesso.
La composizione del magma, infatti, non rimane costante nel tempo, ma cambia in risposta alle variazioni dell'ambiente nel quale esso è situato.
A contatto con rocce più fredde, il magna dissipa il suo calore e la sua temperatura cala.
In risposta a variazioni di composizione, temperatura e specialmente di pressione, specie volatili come l'acqua e il diossido di carbonio, contenute in rilevanti quantità all'interno del magma e inizialmente disciolte in esso, possono liberarsi e dar vita a bolle di gas, comportando grandi cambiamenti nelle proprietà del magma stesso, che culminano, in numerosi casi, anche in una eruzione.   
Pertanto, la grande variabilità chimica dei magmi e le condizioni di pressione e temperatura assai differenti che caratterizzano le regioni attraversate dal magma, dal mantello superiore sino alla superficie terrestre, determina un ampio spettro di proprietà del magma stesso, tra cui:
  • densità;
  • viscosità;
  • conducibilità termica, ecc.
Le suddette assumono notevole importanza nei processi vulcanici e influiscono fortemente non solo sulla tipologia di eruzione e sulle caratteristiche dei prodotti rilasciati, ma pure sull'eventualità che un'eruzione si verifichi in un dato momento.
Focalizziamoci un attimo su densità e viscosità.

DENSITÀ

Per quanto concerne la densità, sappiamo ovviamente dalla Fisica che essa rappresenta il rapporto tra la massa e il volume di un certo corpo:




Inoltre, ricordando il noto principio di Archimede, sappiamo che la densità gioca un ruolo determinante nella sospensione di un corpo in un fluido.
Infatti, un corpo immerso in un fluido più denso tende a galleggiare, mentre, se lo stesso risulta immerso in un fluido con densità minore, allora tende, al contrario, ad affondare come il Titanic!
Dato che i magmi naturali sono caratterizzati dalla presenza di fasi diverse, da solida a liquida a gassosa, ne risulta che le relazioni di densità fra tali fasi designano quali di esse tendono a concentrarsi verso l'alto e quali verso il basso.
Ad esempio, le bolle di gas sono più leggere del liquido magmatico che le contiene; sicché esse tendono a spostarsi verso l'alto.
Ciò spiega perché la lava appare spesso ribollire sulla sua superficie e anche perché il gas, inizialmente confinato entro un corpo magmatico all'interno della Terra, si libera dal magma e arriva in superficie originando le fumarole.

VISCOSITÀ

Per una descrizione precisa della viscosità rimando all'articolo "Meccanica dei fluidi: le bolle di sapone".
Ricordiamo qui che la viscosità, in parole semplici, è quella grandezza designante la resistenza di un fluido alla scorrimento.
In altri termini, ma equivalenti, essa ci fornisce una misura della capacità di un fluido a deformarsi e dunque di fluire liberamente.
Per rendervi le idee maggiormente chiare, vi consiglio di osservare la seguente immagine:


















La sostanza posta in alto possiede sicuramente una viscosità minore rispetto alla sostanza collocata in basso: osservate bene come la prima tenda a fluire molto più facilmente rispetto alla seconda, quando risulta soggetta ad un urto!
Per quanto concerne i vulcani, l'importanza della viscosità sta nel fatto che i magmi possono presentare viscosità che differiscono di centinaia di migliaia di miliardi di volte, in base alle condizioni in cui essi sono situati.
Siccome la dinamica di un'eruzione dipende in maniera intrinseca dalle modalità di risalita lungo le fratture che collegano il magma in profondità con il cratere vulcanico, ne deriva che, a seconda della viscosità del magma, si potranno avere eruzioni con caratteristiche enormemente differenti.
Si può quindi già intuitivamente capire che, in generale, le eruzioni di tipo effusivo, ovvero quelle che consistono nella sola espulsione di lava (per inciso, le meno pericolose), sono caratterizzate da magmi a bassa viscosità, mentre le colleghe esplosive, dotate di armi (naturali) estremamente micidiali, sono il risultato di magmi ad alta viscosità.
Prima di andare a descrivere più approfonditamente queste 2 tipologie di eruzione, è necessario capire meglio la conformazione di un vulcano.
Prendiamo per il momento il modello "montagna di fuoco".
Un vulcano è formato da:
  • un cratere: la grande bocca da cui esce il materiale rovente durante l'eruzione;
  • camino o condotto: il passaggio attraverso cui passa il magma proveniente dalle profondità della Terra per giungere al cratere;
  • camera magmatica (o serbatoio magmatico): il luogo della crosta terrestre situato sotto l'edificio vulcanico, in cui si accumula (ed eventualmente si trasforma) tutto il magma pronto alla fuoriuscita nel momento dell'eruzione. Profondità, forma e dimensione delle camere magmatiche possono variare in maniera rilevante di vulcano in vulcano. Nella maggior parte delle volte, le camere magmatiche si generano all'interno della crosta terrestre a profondità maggiori di 3-4 km. Solo in pochissimi casi è stata appurata la presenza di serbatoi magmatici posti a livelli più superficiali












Una domanda fondamentale a cui dobbiamo ancora rispondere è: come si verifica un'eruzione?
Un'eruzione avviene quando, un po' come una bottiglia di champagne, il magma, confinato nella camera, raggiunge una pressione superficiale sufficiente a vincere la resistenza meccanica delle rocce che costituiscono il tetto del serbatoio magmatico stesso.
Nella maggior parte dei casi, le eruzioni portano in superficie solamente una parte del volume di magma immagazzinato nella camera.
Approfondiamo meglio le tipologie di eruzione.

ERUZIONI EFFUSIVE

Abbiamo già detto che questo tipo di attività vulcanica è quella meno pericolosa ed è caratterizzata dalla formazione di colate laviche lungo le pendici del vulcano.
Ma perché le eruzioni di cotal tipologia sono meno pericolose di quelle esplosive?
La risposta è semplice: la lava, generalmente, non scende molto rapidamente dalle pendici del vulcano, e dunque, la popolazione prossima allo stesso ha tutto il tempo di mettersi in salvo.
In Italia, questo tipo di eruzioni è tipico dell'Etna (situato nella costa orientale della Sicilia, sul margine dello stretto di Messina), che, di norma, genera spettacolari colate di lava.
Ad esempio, la colata di lava dell'Etna del 1989 si è mossa con velocità comprese tra 16 metri al secondo nel primo giorno e 0,3 nella fase finale.
L'Etna, tra l'altro, è il vulcano attivo più grande d'Europa.
Può vantare un diametro di base di oltre 35 km e un'altezza di circa 3350 metri.
Nel medioevo veniva denominato "Mongibello" (dall'italiano "monte" e dall'arabo "djebel", che ha il medesimo significato).
Il magma alimenta l'Etna attraverso faglie profonde che partono da un serbatoio posto una ventina di km sotto la superficie.


 
L'Etna non è stato sempre un vulcano caratterizzato da un'attività effusiva.
I primi segni di attività vulcanica risalgono a un periodo compreso tra 500.000 e 250.000 anni fa, ma il vulcano iniziò ad assumere la sua vera conformazione solamente 200.000 anni fa, scatenandosi pure in eruzioni di tipo esplosivo.
In particolare, si susseguirono numerose eruzioni freatomagmatiche, ovvero derivanti dall'interazione tra il magma in ascesa e una falda acquifera, le quali risultano fortemente esplosive.
Il famoso storico greco Tucidide (460-395 a.C.), nella sua "Storia della guerra del Peloponneso", descrive le eruzioni dell'Etna in questi termini:

"La stessa primavera [del 425 a.C.] avvenne una nuova eruzione dell'Etna, e una colata di lava danneggiò una parte del territorio dei Catanesi. Questi abitano ai piedi dell'Etna, la più alta montagna della Sicilia. Si dice che l'eruzione precedente fosse avvenuta cinquant'anni prima. Da quando la Sicilia è stata colonizzata dai Greci si sono viste in tutto tre eruzioni."

Ora spostiamoci dall'Italia per dirigerci verso il paradiso naturale delle Hawaii.
L'isola di Hawaii (o Big Island, se non vogliamo confonderla con l'arcipelago) è situata all'estremità di una maestosa catena di origine vulcanica, lunga circa 6000 km, comprendente la catena delle Hawaii (3500 km), orientata verso nordest, la quale, dopo una brusca curva verso nord, si trasforma nella catena dell'Imperatore (2400 km), terminando con la dorsale di Obruchev, come mostra la seguente immagine:

Il numero di vulcani all'interno del suddetto complesso ammonta a ben 107, per un volume totale di oltre un milione di chilometri cubi!
L'attività eruttiva dei vulcani hawaiiani è caratterizzata dall'emissione di magmi basaltici a bassa viscosità e basso contenuto in gas.
Le eruzioni hawaiiane, certamente effusive, si possono suddividere a loro volta in quelle che producono laghi di lava e quelle che originano fontane di lava.
L'attività di lago di lava si manifesta come una periodica esplosione di grosse bolle di gas presenti sulla superficie del magma che ristagna nel cratere.
Al contrario, la spettacolare attività di fontana di lava consiste nell'espulsione pressoché continua di un getto di lava ad altezze tra decine e centinaia di metri.
Ciò che viene emesso dalle fontane di lava ricade a terra allo stato incandescente e può andare a generare delle colate di lava.
Eventi tipici del vulcanismo hawaiiano sono le risalite di magma lungo una fessura, ove si trova un allineamento di più bocche che eruttano simultaneamente.
Tale tipologia di eruzione è chiamata, non a caso, fissurale.
Anche in Islanda avvengono molto spesso eruzioni di questo tipo, come quella del Laki del 1783, durante la quale si aprì una spaccatura lunga oltre 25 km dalla quale fuoriuscirono più di 12 chilometri cubi di lava che sommersero una superficie di circa 500 chilometri quadrati!
Ritornando alle Hawaii, i vulcani presenti in tale regione generano colate dalla viscosità inferiore rispetto a quelle dell'Etna e dunque decisamente più veloci.
Pensate che la colata del 1855 del Mauna Loa (vulcano alto ufficialmente poco più di 4 km, ma, se si considera la parte sommersa dalle acque, supererebbe in altezza persino l'Everest!) raggiunse una velocità di 64 km/h su una inclinazione media del pendio di 10°-25°.
Un altro celebre vulcano hawaiiano è il Kilauea, uno dei vulcani più attivi al mondo.



Il Kilauea è un vulcano a scudo situato sul versante sud-est della Big Island.
Anch'esso, come il Mauna Loa, ha un'altezza effettiva occultata dalle acque: si alza infatti per oltre 1200 metri sul livello del mare, a cui vanno aggiunti ulteriori 3700 metri di struttura vulcanica sottomarina.



Ritornando in una prospettiva generale, possiamo distinguere le colate basaltiche in 2 categorie principali:
  • pahoehoe (o a budella), [letteralmente "dove è possibile camminare a piedi nudi"]: molto fluide e dalla velocità elevata. La parte superficiale si raffredda celermente e forma una sottile pellicola sotto la quale la lava incandescente continua a scorrere;












  • aa: ricoperte da un ammasso caotico di frammenti scoriacei spinosi, detti clinker. Sono decisamente più lente. Quando si raffreddano, determinano la formazione di grossi blocchi di roccia. 











Una menzione particolare va alla lava a cuscino (pillow lava), cioè quella che viene generata dalle eruzioni vulcaniche sottomarine.
L'improvviso raffreddamento della lava per mano dell'acqua, assieme all'eventuale rigonfiamento di ciascun cuscino, comporta lo sbriciolamento della crosta vetrosa e la formazione di un'ingente quantità di schegge vetrose (ialoclastite), le quali si accumulano negli interstizi fra i cuscini.















ERUZIONI ESPLOSIVE

E qui viene il bello o il brutto, a seconda dei punti di vista!
Sono le eruzioni esplosive che rendono i vulcani probabilmente le più micidiali macchine di distruzione esistenti.














Le armi atomiche implementate dall'uomo non sono nulla al confronto!
Cominciamo a dire che i magmi caratterizzanti le eruzioni esplosive sono ricchi di gas e presentano un'elevata viscosità.
Un'altra peculiarità dei magmi dell'attività esplosiva è sicuramente l'alto contenuto di silice.
La silice (o anidride silicica o biossido di silicio) è un composto del silicio, avente la seguente formula bruta: SiO2.
Maggiore è il contenuto di silice nel magma, maggiore è la sua viscosità.
A pronfondità elevate all'interno della Terra, i gas vulcanici si trovano disciolti nel magma.
L'ascesa della massa fusa verso la superficie determina una progressiva riduzione della pressione e la conseguente liberazione dei costituenti volatili, con particolare riferimento all'acqua e all'anidride carbonica, che formano bolle di gas disperse nel liquido.
A livelli ancor più superficiali, queste bolle occupano un volume crescente rispetto al liquido e possono pure fondersi per generare bolle di dimensione maggiore.
Il suddetto processo di liberazione ed espansione del gas viene contrastato dalla resistenza che il magma oppone alla crescita delle bolle, tanto maggiore quanto maggiore è la sua viscosità
I magmi ricchi di silice e quindi decisamente viscosi, si oppongono pertanto in modo efficace all'espansione del gas.
Ne consegue che le bolle conservano al loro interno una pressione maggiore rispetto a quella del liquido magmatico.
Il processo di liberazione del gas, peraltro, è in grado di generare un incremento della viscosità del magma di centinaia o migliaia di volte.
Nel momento in cui la pressione interna delle bolle di gas arriva ad un punto di non ritorno, ossia diventa troppo alta rispetto a quella del liquido magmatico, o quando la viscosità del magma diviene così alta da non permettere al magma stesso di fluire lungo il condotto, avviene la frammentazione del magma, cioè la sua trasformazione da liquido contenente bolle di gas a gas contenente frammenti di liquido bolloso (piroclasti).
La profondità alla quale avviene la prima liberazione del gas viene detta livello di essoluzione.
Abbiamo visto quello che succede, in generale, ai gas contenuti nei magmi durante un'eruzione esplosiva.
Adesso andiamo a scoprire le tipologie principali di attività esplosiva.
Stiliamo intanto una piccola scaletta:
  • eruzioni stromboliane;
  • eruzioni vulcaniane;
  • eruzioni peléeane;
  • eruzioni pliniane.
ERUZIONI STROMBOLIANE

Le eruzioni di questo tipo traggono ovviamente la loro denominazione dal vulcano Stromboli delle isole Eolie.



Anche lo Stromboli, come il Mauna Loa e il Kilauea, ha una reale altezza occultata dalle acque: infatti, è vero che si erge per meno di 1000 m sopra il livello del mare, ma, a partire dal fondale marino, la sua altezza si incrementa di oltre 2 km.
Dalle bocche dei crateri sommitali, poste circa 200 metri sotto la vetta, si susseguono incessantemente, a intervalli di decine di minuti, esplosioni che danno vita a getti di scorie incandescenti sino a centinaia di metri di altezza!
La stragrande maggioranza di tali scorie cade attorno alle bocche, ma una parte scivola giù fino al mare lungo il ripido versante di una grossa depressione, denominata Sciara del Fuoco.
Curiosità: lo Stromboli si trova in questo stato di attività continua da circa 2000 anni; non a caso gli è stato assegnato l'appellativo di "Faro del Mediterraneo".
Dopo questo breve excursus sullo Stromboli, ritorniamo alla descrizione generale delle eruzioni di tipo stromboliano.
I magmi prodotti da questa tipologia di attività vulcanica presentano una viscosità medio-bassa ed un contenuto di gas il più delle volte superiore a quello delle eruzioni hawaiiane.
Le esplosioni, le quali si susseguono ad intervalli regolari, avvengono in seguito all'esplosione di una grossa bolla di gas e al conseguente lancio nell'atmosfera, sino a centinaia di metri, di frammenti di lava incandescenti, presentanti velocità iniziali fino a 200 m/s.
Voglio farvi un esempio di un vulcano che presenta un'attività di tipo stromboliano, che però non sia lo Stromboli.
Questo esempio potrebbe far saltare qualcuno dalla sedia!
Il nome del vulcano a cui mi sto riferendo è Erebus.
Dove si trova?
In Antartide!
Nel caso pensavate che al Polo Sud non ci fossero assolutamente vulcani, dovrete ricredervi.
L'Erebus (alto 3794 m), quasi interamente ricoperto di neve e ghiaccio, è il vulcano più attivo dell'Antartide.
È situato nella parte meridionale del rift Terror, al congiungimento dei 2 blocchi che formano l'Antartide.



Tale edificio vulcanico è stato scalato per la prima volta dall'8 al 10 marzo 1908 da David, Adams, Mawson, Mackay, Marshall e Brocklehurst durante la spedizione polare di Ernest Henry Shackleton.
R. Priestley e T.W. David in "Note sull'Erebus" dall'opera "Il cuore dell'Antartico" di Shackleton scrivono:

"Quella notte [14-15 giugno 1908] c'era chiaro di luna; il cielo di un blu scuro allo zenit, impallidiva all'orizzonte. Quando la luna passò dietro la grande nube di vapore dell'Erebus (22,5 gradi d'arco), lo spettacolo diventò sublime. La sua luce si rifletteva sui piccoli ghiacciai situati ai piedi dell'Erebus a sudovest, mentre i versanti ovest e nordovest erano immersi in un'ombra profonda. A mezz'altezza, al disopra della base del cono, leggeri vapori bianchi si avvolgevano attorno alla montagna."

Dal punto di vista della morfologia, l'Erebus risulta molto simile all'Etna, al quale è paragonabile anche per le dimensioni.
L'Erebus è, peraltro, l'unico vulcano a liberare una lava molto particolare (fonoliti ad anortoclasio) e uno dei pochissimi a possedere un lago di lava.
La denominazione "Erebus" si deve a James Ross, che lo scoprì il 28 gennaio 1841, anno in cui il vulcano si trovava in uno stato di attività.
Per la mitologia greca, Erebo era un dio primordiale, personificazione dell'oscurità, figlio di Caos e fratello della Notte.
Con la sorella Notte, Erebo generò, secondo alcune leggende, diversi personaggi importanti della mitologia greca:

  • Nemesi: dea della vendetta;
  • Eris: dea della discordia;
  • Caronte;
  • Le 3 moire;
  • Le 3 Esperidi e diversi altri. 

Con il termine "Erebo", tra l'altro, ci si può riferire anche agli inferi!

ERUZIONI VULCANIANE

Anche questa tipologia di attività vulcanica prende il nome da un vulcano italiano.
Le eruzioni vulcaniane sono state infatti così definite in omaggio all'eruzione del cratere della Fossa all'isola di Vulcano nel 1888-90.















Vulcano è l'isola più meridionale dell'arcipelago delle Eolie e può vantare al suo interno 2 centri attivi in epoca storica:

1) cono della Fossa;
2) Vulcanello.

Le eruzioni vulcaniane sono prodotte soprattutto dall'esplosione di gas magmatici, anche se sussistono casi in cui è possibile un limitato coinvolgimento di acqua esterna.
La loro peculiarità è rappresentata da:

- ripetute esplosioni di potenza significativa, accompagnate dal lancio di bombe di grande dimensione, le quali ricadono, seguendo un moto parabolico, fino a distanze di chilometri dalla bocca;
- simultanea produzione di nubi di gas e cenere, che risalgono per convezione, pervenendo ad altezze attorno ai 20 km.

Ergo, si capisce che i magmi generanti tale tipologia di eruzione sono molto viscosi e contengono una buona quantità di gas.
Prima di passare alla prossima classe di eruzione, dobbiamo specificare che con il termine bombe non ci stiamo ovviamente riferendo alle armi prodotte dall'uomo, bensì a grossi frammenti incandescenti che derivano dallo sbriciolamento del magma.















Infatti, i piroclasti, ovvero il prodotto delle frammentazione del magma durante l'eruzione, vengono distinti in:
  • bombe o blocchi: con dimensioni maggiori di 64 mm;
  • lapilli: con dimensioni comprese fra 2 e 64 mm;
  • ceneri: con dimensioni inferiori a 2 mm.
In particolare, le ceneri possono essere a loro volta suddivise in:
  • grossolane: con dimensioni comprese tra 0,0625 e 2 mm;
  • fini: con dimensioni inferiori a 0,0625 mm.
ERUZIONI PELÉEANE

Le eruzioni di tipo peléeano comportano l'innesco di frane di materiale incandescente dovute alla formazione di duomi.
I duomi di lava si generano quando la lava eiettata, avente un'eccezionale viscosità, ristagna in prossimità del cratere dando vita a una sorta di gigantesca goccia incandescente.
I duomi contribuiscono a creare pendii notevolmente ripidi e ciò favorisce la tendenza a franare.
Può succedere che sussista l'esplosione dell'intera massa del duomo, la quale genera una nube (colata piroclastica) più densa dell'aria, che si propaga ad incredibili velocità.
Alcune volte, la nube ardente si propaga radialmente intorno all'edificio vulcanico, altre volte, essa viene proiettata lateralmente (lateral blast) focalizzandosi su un unico settore.
L'esempio più noto di eruzione vulcanica laterale è sicuramente fornito da quella del Mount St. Helens risalente al 1980.
Il fatto che tale montagna, situata nella Catena delle Cascate (Stato di Washington) fosse un vulcano era già noto agli indiani fin dalla notte dei tempi; tuttavia, i primi occidentali non furono così abili da riconoscere che in mezzo a quelle pendici tappezzate di foreste vi si celasse una "bomba ad orologeria".
La natura vulcanica del St. Helens fu riconosciuta ufficialmente nel 1835 grazie a una piccola eruzione.
La sua geologia è stata studiata sin dal 1841, durante la spedizione del luogotenente dell'esercito americano Charles Wilkes.
Attorno al 1978, i vulcanologi si resero conto che molto probabilmente, di lì a poco, ci sarebbe stata una violenta eruzione del St. Helens, dopo 121 anni di sonno profondo.
L'eruzione del 18 maggio 1980 cominciò con una devastante frana sul fianco nord del vulcano.
La frana fece precipitare la pressione all'interno dell'edificio vulcanico, inducendo un lateral blast da parte dei gas sotto pressione.
D'altronde, il cratere della montagna era completamente tappato da un criptoduomo, che impediva la fuoriuscita di materiale piroclastico dalla bocca principale.
I vulcanologi non avevano mai visto niente del genere!
Il vulcanologo David Johnston monitorava l'eruzione da una distanza di 9-10 km, pensando di essere al sicuro.
Proprio quel fatidico giorno sostituiva un suo studente, impegnato in un incontro con un collega tedesco.
Alle 8.32 (mattina) del 18 maggio Johnston fece appena in tempo a vedere la frana e a mettersi in contatto mediante la radio con i colleghi, ai quali gridò "Vancouver, Vancouver, this is it!".
L'eruzione del Sant'Helens generò appunto una nube ardente che raggiunse la sorprendente velocità di 1000 km/h.
Cosa ancor più sorprendente: sebbene fosse stata causata dalla frana, la colata piroclastica la superò, come si può constatare lungo il North Fork Toutle River, ove i depositi della frana risiedono sopra e non sotto il letto di alberi abbattuti dalla nube incandescente!
I resti di Johnston non furono mai rinvenuti.
I morti ammontarono a 57, ma la devastazione che l'eruzione (la quale sprigionò un'energia equivalente a quella di migliaia di bombe atomiche!) comportò fu allucinante.
Giusto per darvi un suggestivo esempio, i giganteschi alberi secolari circondanti il vulcano vennero divelti come fossero degli stuzzicandenti!



Ritorniamo alle eruzioni peléeane.
Esse prendono il nome dal vulcano Pelée dell'isola di Martinica.
Scoperta il 15 dicembre 1502 da Cristoforo Colombo nel suo quarto viaggio verso le Indie Occidentali, poi colonizzata a partire dal 1636, la Martinica possiede uno dei vulcani più famosi delle Piccole Antille, appunto la Montagne Pelée.
L'aggettivo pelée ("brullo", ossia arido), assegnato al vulcano probabilmente dai primi coloni, si riferisce proprio all'assenza di vegetazione sulla cima dello stesso, provocata probabilmente da un'eruzione avvenuta soltanto pochi anni prima della colonizzazione dell'isola.
L'8 maggio 1902, la città di Saint-Pierre, detta la "regina" o "la perla delle Antille", o addirittura la "piccola Parigi", fu letteralmente cancellata dalla carta geografica da una delle eruzioni più drammatiche della storia per la subitaneità e lo spaventoso numero di vittime.
Essa è stata minuziosamente descritta da Alfred Lacroix, inviato in Martinica al fine di studiarla.
Le preziose osservazioni di questo eminente geologo sono state pubblicate nel 1904 in un monumentale libro intitolato "La Montagne Pelée et ses éruptions", nel quale, peraltro, egli fornisce per la prima volta la definizione di "nube ardente".
La violenta eruzione dell'8 maggio determinò la morte di circa 28.000 abitanti di Saint-Pierre.
Pensate che i sopravvisuti furono solamente 2!
Purtroppo, piovve sul bagnato: il 30 agosto 1902 un'altra crisi eruttiva distrusse una buona parte del villaggio di Morne-Rouge, aggiungendo al già critico bilancio, un altro migliaio di vittime.


    










 ERUZIONI PLINIANE

Le eruzioni pliniane prendono la denominazione da Plinio il Giovane, il quale descrisse, nelle sue 2 lettere a Tacito (scritte circa 27 anni dopo l'evento), l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., che spazzò via Pompei, Ercolano e Stabia.














Riporto un passo da una delle espistole, dove Plinio il Giovane ricorda anche suo zio, Plinio il Vecchio (autore della magistrale opera "Naturalis Historia"), il quale perse la vita proprio a causa del catastrofico evento:

"Era [Plinio il Vecchio] a Miseno e teneva direttamente il comando della flotta. Il 24 agosto, verso l'una del pomeriggio, mia madre lo informa che spuntava una nube fuori dell'ordinario sia per grandezza che per aspetto. Egli dopo aver preso un bagno di sole e poi un altro nell'acqua fredda, aveva fatto uno spuntino stando nella sua brandina da lavoro ed attendeva allo studio; si fa portare i sandali e sale in una località che offriva le migliori condizioni per contemplare quel prodigio. Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna [si seppe poi in seguito che era il Vesuvio]: nessun'altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la figura e la forma. Infatti slanciatosi in su come se si sorreggesse su di un altissimo tronco, si allargava poi in quelli che si potrebbero chiamare dei rami; credo che il motivo risiedesse nel fatto che, innalzata dal turbine subito dopo l'esplosione e poi privata del suo appoggio quando quello andò esaurendosi, o anche vinta dal suo stesso peso, si dissolveva allargandosi: talora era bianchissima, talora sporca e macchiata, a seconda che aveva trascinato con sé terra o cenere. Nella sua profonda passione per la scienza, stimò che si trattasse di un fenomeno molto importante e meritevole di essere studiato più da vicino. Ordina che gli si prepari una liburna [imbarcazione leggera e veloce] e mi offre la possibilità di andare con lui se lo desiderassi. Gli risposi che preferivo attendere ai miei studi e, per caso, proprio lui mi aveva assegnato un lavoro da svolgere per iscritto. Mentre usciva di casa, gli viene consegnata una lettera da parte di Rettina, moglie di Casco, la quale, terrorizzata dal pericolo incombente [infatti la sua villa era posta lungo la spiaggia della zona minacciata e l'unica via di scampo era rappresentata dalle navi], lo pregava che la strappasse da quel frangente così spaventoso. Egli allora cambia progetto e ciò che aveva incominciato per un interesse scientifico lo affronta per l'impulso della sua eroica coscienza. Fa uscire in mare delle quadriremi e vi sale egli stesso, per venire in soccorso non solo a Rettina ma a molta gente, poiché quel litorale, in grazia della sua bellezza, era fittamente abitato....Quanto più si avvicinavano, la cenere cadeva sulle navi sempre più calda e più densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, corrose e spezzate dal fuoco, ormai si era creato un bassofondo improvviso ed una frana della montagna impediva di accostarsi al litorale. Dopo una breve esitazione se dovesse ripiegare all'indietro, al pilota che gli suggeriva quest'alternativa tosto replicò: "La fortuna aiuta i prodi; dirigiti sulla dimora di Pomponiano". Questi si trovava a Stabia, dalla parte opposta del golfo [giacché il mare si inoltra nella dolce insenatura formata dalle coste arcuate a semicerchio]; colà quantunque il pericolo non fosse ancora vicino, siccome però lo si poteva scorgere bene e ci si rendeva conto che, nel suo espandersi, era ormai imminente, Pomponiano aveva trasportato su delle navi le sue masserizie, determinato a fuggire non appena si fosse calmato il vento contrario. Per mio zio invece questo era allora pienamente favorevole, così che vi giunge, lo abbraccia tutto spaventato com'era, lo conforta, gli fa animo e, per smorzare la sua paura con la propria serenità, si fa calare nel bagno....Nel frattempo dal Vesuvio risplendevano in parecchi luoghi delle larghissime strisce di fuoco e degli incendi che emettevano alte vampate, i cui bagliori e la cui luce erano messi in risalto dal buio della notte. Egli, per sedare lo sgomento, insisteva nel dire che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell'affanno di mettersi in salvo e di ville abbandonate che bruciavano nella campagna....Il cortile da cui si accedeva alla sua stanza, riempiendosi di cenere mista a pomici, aveva ormai innalzato tanto il suo livello che, se mio zio avesse ulteriormente indugiato nella sua camera, non avrebbe più avuto la possibilità di uscirne. Svegliato, viene fuori e si ricongiunge al gruppo di Pomponiano e di tutti gli altri, i quali erano rimasti desti fino a quel momento. Insieme esaminano se sia preferibile starsene al coperto o andare alla ventura allo scoperto. Infatti, sotto l'azione di frequenti ed enormi scosse, i caseggiati traballavano e, come se fossero stati sbarbicati [ovvero stradicati, divelti] dalle loro fondamenta, lasciavano l'impressione di sbandare ora da una parte ora dall'altra e poi di ritornare in sesto. D'altronde all'aperto cielo c'era da temere la caduta di pomici, anche se erano leggere e corrose; tuttavia il confronto tra i due pericoli indusse a scegliere quest'ultimo....Si pongono in testa dei cuscini e li fissano con dei capi di biancheria; questa era la loro difesa contro tutto ciò che cadeva dall'alto. Altrove era già giorno, là invece era una notte più nera e più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose fiaccole e da luci di varia provenienza. Si trovò conveniente di recarsi sulla spiaggia ed osservare da vicino se fosse già possibile tentare il viaggio per mare, ma esso perdurava ancora sconvolto ed intransitabile. Colà, sdraiato su di un panno steso per terra, chiese a due riprese dell'acqua fresca e ne bevve. Poi delle fiamme ed un odore di zolfo che preannunciava le fiamme spingono gli altri in fuga e lo ridestano. Sorreggendosi su due semplici schiavi riuscì a rimettersi in piedi, ma subito stramazzò: da quanto io posso arguire, l'atmosfera troppo pregna di ceneri gli soffocò la respirazione e gli otturò la gola, che era per costituzione malaticcia, gonfia e spesso infiammata. Quando riapparve la luce del sole [era il terzo giorno da quello che aveva visto per ultimo] il suo cadavere fu trovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti che aveva indossati: la maniera con cui il suo corpo si presentava faceva più pensare ad uno che dormisse che non ad un morto."    

Agli abitanti di Pompei ed Ercolano andò molto peggio: furono investiti da spaventose colate piroclastiche e i loro cervelli scoppiarono per il troppo calore emanato da quelle nubi ardenti!



Non starò a descrivervi nei dettagli il Vesuvio, poiché ci vorrebbe un post a parte.
Vi dico solo, alla stregua di curiosità, che la natura vulcanica di tale montagna fu scoperta non in tempi recenti, bensì dal geografo greco Strabone (58 a.C. - 21 d.C.), assieme all'architetto romano Vitruvio (autore del celeberrimo trattato "De architectura"), quasi suo contemporaneo.
Adesso, prendendo come riferimento la descrizione di Plinio il Giovane dell'eruzione, andiamo a scoprire meglio le caratteristiche delle eruzioni (che non a caso sono dette) pliniane!
Le eruzioni pliniane generano gigantesche nubi eruttive che si innalzano nell'atmosfera assumendo la forma simile a quella di un pino con un tronco stretto e la chioma ad ombrello.
Le colonne pliniane sono in grado di sollevare grosse masse di frammenti anche delle dimensioni di centimetri a un'altezza di svariate decine di chilometri.
Possiamo distinguere 3 parti principali in cui risulta suddivisa una colonna pliniana:

1) regione del getto: situata immediatamente sopra la bocca del vulcano, è il luogo dove il mix di gas e frammenti, accelerato dall'espansione del gas nel camino, viene lanciato ad elevata velocità nell'atmosfera. L'altezza della regione del getto può variare da poche centinaia di metri sino a qualche km;
2) regione convettiva: qui, la nube vulcanica ascende nell'atmosfera grazie alla sua minore densità rispetto all'aria circostante. La bassa densità della nube è dovuta alla sua elevata temperatura e all'incessante incameramento di aria, la quale, a sua volta, viene riscaldata dalla cessione di calore da parte dei frammenti di magma. La spinta data dal contrasto di densità consente alla nube di attraversare la troposfera (il cui spessore è di circa 12 km) e di addentrarsi nella stratosfera fino ad un'altezza di 50-55 km.
3) regione dell'ombrello: il processo di risalita convettiva termina quando la nube, ormai raffreddata e appesantita dai materiali solidi presenti al suo interno, raggiunge la medesima densità dell'aria circostante e comincia ad espandersi lateralmente creando un gigantesco ombrello, il cui diametro può raggiungere persino centinaia di km.


















Tuttavia, non sempre si verifica un regime di tipo convettivo.
Può accadere, a volte, che si abbia un regime collassante, cioè una ricaduta verso il basso della miscela di gas e frammenti piroclastici dalla zona apicale della regione del getto.
Questo comportamento avviene quando, esaurita la spinta iniziale, il mix di gas e frammenti non è sufficientemente diluito, o, detto in altri termini, la sua densità media è maggiore di quella dell'aria circostante.
Sicché, questa nube incandescente incomincia a scendere lungo i pendii del vulcano alla stregua di una frana, che travolge ed incenerisce tutto ciò che incontra nel suo cammino di devastazione.
Ecco dunque spiegata l'origine delle armi più micidiali dei vulcani: le colate piroclastiche.
Dato che stiamo parlando dell'equipaggiamento che un vulcano possiede per innescare una scia di morte e distruzione, è necessario citare anche i lahar (termine giavanese).
Cosa sono?
Rappresentano delle vere e proprie colate di fango, in grado di arreccare ingenti danni ad aree fino a centinaia di km di distanza dal vulcano stesso.
Un lahar può essere innescato da molteplici fattori:
  • intense piogge o uragani;
  • vapore acqueo emesso dal vulcano stesso;
  • fusione di un ghiacciaio sommitale provocata da un'eruzione, ecc.
Giusto per fornirvi un esempio, il 13 novembre 1985 l'eruzione del Nevado del Ruiz causò la celere fusione di parte del ghiacciaio sommitale, scatenando un violento lahar che, a seguito di un viaggio di oltre 60 km, rase letteralmente al suolo la città di Armero, comportando il decesso di oltre 22.000 persone.
Bene, abbiamo osservato in dettaglio le diverse tipologie di eruzione vulcanica.
Ora andiamo ad analizzare brevemente la suddivisione dei vulcani in base alle condizioni geodinamiche.
La nostra nuova scaletta è la seguente:
  • vulcani di dorsale oceanica;
  • vulcani di rift continentale;
  • vulcani di margine continentale;
  • vulcani di arco insulare;
  • vulcani di punto caldo.
VULCANI DI DORSALE OCEANICA

Sappiamo che i fondali oceanici sono costellati da fratture per circa 75.000 km, dalle quali fuoriesce lava di composizione basaltica.
Proprio in corrispondenza di tali fratture si trova il sistema di dorsali oceaniche.


















Queste fratture marcano margini divergenti (o costruttivi) di placca, rappresentanti zone dove le placche tendono ad allontarnarsi l'una dall'altra.
Il magma proveniente dalle rocce parzialmente fuse del mantello superiore (in termini tecnici, dall'astenosfera) risale nelle fratture e viene eiettato sul fondale oceanico, sui 2 lati delle fratture stesse.
A contatto con l'acqua, avviene, come abbiamo visto, la formazione delle lave a cuscino.
L'accumulo di lava sui fianchi di una dorsale oceanica genera un rilievo, il quale, in alcuni punti, emerge in superficie.
Un esempio significativo di vulcani di cotale tipologia sono i vulcani islandesi.

VULCANI DI RIFT CONTINENTALE

I margini divergenti comportano anche la creazione di rift continentali, ovvero depressioni che si estendono per centinaia o migliaia di chilometri, lungo le quali possono venire alla luce numerosi edifici vulcanici (sia di tipo esplosivo che effusivo), in seguito alla risalita di magma dal mantello lungo le fratture della crosta.
Non si può concludere la trattazione sui rift se non si cita la famosissima Rift Valley dell'Africa Orientale, il monumentale sistema di fratture che si estende dalla valle del Giordano in Medio Oriente sino al Mozambico, passando per il Mar Rosso, per una lunghezza complessiva di circa 6500 km!




















VULCANI DI MARGINE CONTINENTALE

Prima di scoprire i vulcani di margine continentale, dobbiamo un attimo soffermarci su un importante fenomeno, ovvero quello della subduzione.
Il termine "subduzione" deriva dal latino sub, cioè "sotto", e ducere, ovvero "condurre".
La subduzione rappresenta un fenomeno geodinamico consistente nello sprofondamento di una litosfera oceanica sotto una litosfera continentale, oppure oceanica.
Pertanto, una zona di subduzione designa il punto in cui 2 placche vengono a contatto.
Le seguenti immagini illustrano rispettivamente la subduzione tra crosta oceanica e crosta continentale, e la subduzione fra 2 croste oceaniche:















Specificato ciò, i vulcani di margine continentale, come lascia trasparire la denominazione, sono quelli che si formano in seguito allo sprofondamento della crosta oceanica sotto quella continentale.
Man mano che affondano nel mantello, le rocce vulcaniche oceaniche si scaldano sempre di più rilasciando tutta l'acqua che avevano assorbito.
Quest'ultima, assieme al calore, favorisce la parziale fusione delle rocce che dunque si mettono in moto verso l'alto.
Tuttavia, in tale contesto il magma non è puro come nel caso delle dorsali, bensì è una mescolanza di svariate rocce differenti (rocce vulcaniche oceaniche, sedimenti oceanici superficiali, crosta continentale, ecc.) fuse tutte insieme.
Ergo, il liquido risultante non è bello fluido come il basalto ma decisamente più viscoso, in quanto ricco di silice.
Ne consegue che i suddetti vulcani sono caratterizzati da attività prevalentemente esplosiva.
Esempi di tale tipologia di vulcano sono i centri vulcanici delle Ande, del Centro-America e degli Stati Uniti nordoccidentali.

VULCANI DI ARCO INSULARE

Risulta molto facile definirli, visto che rappresentano ciò che deriva da un processo di subduzione tra 2 placche oceaniche.
In tal caso, il fuso che ne consegue, non dovendo attraversare la spessa crosta continentale, perviene con minore fatica in superficie, ove dà luogo ad un'alta concentrazione di vulcani che si distribuiscono lungo catene lineari o spesso arcuate.
In generale, le modalità eruttive possono essere molto variegate, manifestandosi in tutti gli stadi intermedi possibili tra le eruzioni effusive e le violente esplosioni.
Esempi di tale classe di vulcani sono gli edifici vulcanici del Giappone, dell'Indonesia, delle Filippine, della Nuova Zelanda, ecc.

VULCANI DI PUNTO CALDO

Una tipologia di vulcanismo che certamente si discosta dalle precedenti, in quanto si manifesta lontano dalle placche, è il cosiddetto Vulcanismo Intraplacca o Punto Caldo (Hot Spot).
Qui non si ha il movimento delle zolle che comporta la fuoriuscita di magma, bensì un singolare riscaldamento di un'area profonda del mantello che fonde la roccia sovrastante.
Nel frattempo, la placca sovrastante si sposta, facendo sì che i centri vulcanici creati si allineino lungo una sorta di traccia del suo percorso, dando vita ad un arco di isole di età differente, relativa al senso del moto sussistente.
La natura di questi Hot Spots è ancora un mistero; potrebbero probabilmente essere causati da un'elevata concentrazione di elementi radioattivi che riscaldano la roccia, costringendola ad ascendere.
Potrebbero anche designare i primissimi stadi di lacerazione delle placche, un po' come forzare lungo una direttrice, tramite dei punteruoli, una superficie prima di creparla.
I magmi risultanti da tale attività risultano pressoché simili a quelli che sgorgano dalle dorsali oceaniche, ma in tal caso vengono detti magmi tholeitici.
La tipologia di attività è certamente effusiva e l'esempio più noto di questi vulcani è rappresentato dalle Hawaii.



















COME VIENE CLASSIFICATA LA POTENZA DI UN'ERUZIONE?

Siamo forse giunti al momento più atteso: quali sono state le eruzioni vulcaniche più potenti della storia?
A questa domanda risponderemo tra pochissimo.
Diciamo innanzitutto che esiste una scala che permette di misurare la potenza di un'eruzione vulcanica.
Si chiama VEI (volcanic explosivity index) e parte da un livello 0 per giungere ad un livello 9.
I livelli da 0 a 7 sono tutti occupati da vulcani "normali"; i livelli 8 e 9 sono invece raggiunti solo dai cosiddetti supervulcani.  
E qui sorge un ulteriore quesito: cosa sono i supervulcani?
Vi ricordate che all'inizio dell'articolo vi avevo accennato al fatto che non tutti i vulcani si presentano alla stregua di montagne di fuoco.
Ebbene, mi stavo riferendo proprio ai supervulcani.
Vi fornisco alcuni nomi: Toba (in Indonesia), Yellowstone, Campi Flegrei.
Questi sono supervulcani (sì, anche in Italia ci sono supervulcani!).
Se voi andaste a visitare tali posti, non scorgereste alcuna montagna perché non c'è.
I supervulcani sono infatti colossali caldere (grosse depressioni circolari o semicircolari), aventi un diametro di svariate decine di km!
Pensate che, ad esempio, sotto il Parco Nazionale di Yellowstone, tra gli stati del Montana, Idaho e Wyoming, è celata una gigantesca camera magmatica con magma altamente viscoso al suo interno.
Se Yellowstone dovesse eruttare oggi con la stessa potenza delle eruzioni passate (una delle quali, avvenuta circa 2 milioni di anni fa, ha eiettato un volume di 2500 chilometri cubi di ceneri e pomici!), tutte le zone entro qualche decina di chilometri sarebbero letteralmente spazzate via dalle colate piroclastiche e questo sarebbe solo l'inizio!
Infatti, un'ingente quantità di materiale piroclastico raggiungerebbe l'atmosfera, spargendosi per tutto il globo terrestre, coprendo così il Sole e innescando una sorta di era glaciale.















Per fortuna, le eruzioni supervulcaniche non avvengono con la stessa frequenza delle "normali" eruzioni; i supervulcani hanno bisogno di milioni e milioni di anni per ricaricarsi ed esser pronti allo scoppio, il quale non avrebbe nulla da invidiare, in quanto a devastazioni, alla caduta di un asteroide.
Tracciamo un piccolo punto della situazione, prima di andare a scoprire l'unica eruzione classificata come VEI 9.
Le eruzioni di classe VEI da 0 a 2 sono effusive (come quelle delle Hawaii) o poco esplosive.
Dal livello VEI 3 incominciamo le eruzione esplosive.
Un VEI 3 famoso è l'eruzione del Nevado del Ruiz del 1985, di cui abbiamo parlato sopra.
Un esempio di eruzione VEI 4 è quella del vulcano indonesiano (sulla geologia indonesiana troverete interessanti informazioni nell'articolo "Indonesia: la regione geologicamente più instabile del mondo") Galunggung del 1982.
Nel livello VEI 5 troviamo l'eruzione del Mount St. Helens del 1980 e del Vesuvio del 79 d.C.
Nel livello VEI 6 troviamo la celeberrima e apocalittica eruzione del Krakatoa del 1883.
Al livello VEI 7 possiamo scorgere l'eruzione del Tambora del 1815.
Nel livello VEI 8 troviamo le eruzioni di Yellowstone di 2 milioni di anni fa e del Toba risalente a circa 75.000 anni fa.
Ogni grado in più corrisponde a una potenza 10 volte maggiore!
Rullo di tamburi: la posizione VEI 9 è occupata dall'eruzione della Caldera di La Garita (Colorado) di circa 28,8 milioni di anni fa.
Il suo potere distruttivo? "Solo" 100.000 volte maggiore dell'ordigno più forte mai sganciato dall'uomo, ovvero la bomba all'idrogeno Tsar.
Tale bomba (sganciata dai russi nel 1961 a nord del circolo polare artico) ha liberato un'energia circa 3000 volte superiore a quella dell'atomica di Hiroshima!
Guardando questi dati ci si rende conto di quanto sia stata devastante l'eruzione de La Garita, probabilmente la più imponente mai avvenuta sul pianeta Terra!

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Abbiamo intrapreso un lungo viaggio nel mondo dei vulcani.
Abbiamo analizzato le tipologie di eruzione e di vulcano, senza tralasciare esempi significativi che servono a rendere il tutto più chiaro.
Infine, abbiamo osservato la potenza distruttiva delle eruzioni, arrivando a scoprire esplosioni colossali, come quella di La Garita.
Mi preme tuttavia riportare qui un fatto che abbiamo trascurato: è vero che i vulcani rappresentano strumenti di distruzione straordinaria, ma essi sono anche in grado di creare, di produrre, di far fiorire la vita: si pensi alla nascita delle isole e soprattutto al fondamentale contributo che essi hanno avuto nel far divenire il pianeta Terra ricco d'acqua, e dunque di vita.
D'altronde, Madre natura è come una medaglia con 2 facce: una buona e una cattiva.
Quello che possiamo fare è accettarle entrambe e continuare a studiare (anche per trovare metodi di difesa) tali straordinari fenomeni naturali.
D'altronde (e con questa informazione chiudiamo veramente!) per quanto concerne le eruzioni vulcaniche, a differenza dei terremoti, sussistono margini di prevedibilità, o meglio, dei precursori!
Come ciliegina sulla torta, ecco un interessantissimo documentario relativo ai vulcani, targato National Geographic:









sabato 23 giugno 2012

COS'È LA LIQUEFAZIONE DEL TERRENO?

Il terremoto, o meglio, lo sciame sismico che ha scovolto e continua a sconvolgere l'Emilia, a partire dal 20 maggio 2012, ha portato agli onori delle cronache un fenomeno geofisico poco noto al grande pubblico: la liquefazione del terreno.
Cerchiamo di fare brevemente un po' di chiarezza!
Innanzitutto cerchiamo di rispondere alla domanda fondamentale: che cos'è la liquefazione?
La liquefazione (termine usato per la prima volta, nel 1920, dall'ingegnere Allen Hazen nell'articolo "Hydraulic-Fill Dams" sui "Transactions of the American Society of Civil Engineers") è quel processo che porta un terreno a perdere improvvisamente forza, o meglio, resistenza alle sollecitazioni di taglio, per mano di un violento scuotimento dovuto a un forte sisma.
Tuttavia, è necessario specificare che non tutti i suoli tendono a liquefarsi a causa di un terremoto.
Infatti, tale fenomeno riguarda i terreni sabbiosi, limosi o argillosi, saturi d'acqua (come i paleoalvei della bassa pianura emiliana), i quali, sotto le sollecitazioni provocate dalle onde sismiche, tendono ad assumere la consistenza di un fluido, o quantomeno di un liquido pesante.
In sintesi, avviene una sorta di passaggio improvviso dallo stato solido a quello fluido-liquido.
Il suddetto processo si verifica solitamente quando, sotto l'effetto di carichi applicati o forze idrodinamiche, la pressione dell'acqua nei pori del terreno, chiamata (non a caso) pressione interstiziale, aumenta man mano fino ad eguagliare la pressione totale di confinamento.
Un terreno soggetto a liquefazione, alla stregua dell'acqua, non può sopportare il peso di ciò che vi è confinato sopra.
Ne consegue che il suolo liquefatto, sotto tale peso, è costretto a risalire in superficie come mulinelli o  "vulcanetti di fango", in corrispondenza delle fratture del terreno.
Altre possibili conseguenze della liquefazione sono:
  • cedimenti nel terreno;
  • perdita di sostegno per quanto concerne le fondamenta degli edifici;
  • galleggiamento di infrastrutture sepolte (oleodotti, serbatoi, ecc.), le quali risultano più leggere del terreno circostante liquefatto;
  • nei pressi di torrenti e fiumi, la superficie secca può scorrere lateralmente sul terreno liquefatto, alla stregua di una frana. Questo fenomeno è detto lateral spreading e può comportare ingenti danni alle abitazioni. Si manifesta come una serie di lunghi strappi e lacerazioni del terreno, come mostra la seguente immagine:



















Pensate che a Niigata, in Giappone, il 16 giugno 1964 si verificò un sisma di magnitudo 7,5 che provocò il ribaltamento di decine di edifici, ben edificati dal punto di vista antisismico (a differenza di quelli italiani!), ma, purtroppo, poggianti su depositi sabbiosi saturi d'acqua: la completa liquefazione fu inevitabile.
Per concludere, vorrei riportare un passo molto interessante dal libro Aria, acqua, terra e fuoco (volume 1) di Fabio Vittorio De Blasio, relativo alla liquefazione e al Colosseo:

"Iniziato negli anni dell'imperatore Vespasiano (che regnò dal 69 al 79 d.C.) e finito dal figlio Tito, il Colosseo nacque col nome di anfiteatro Flavio per cancellare la memoria di Nerone e inaugurare i Flavi al potere di Roma. Il nome successivo di Colosseo ricorda la presenza di un'enorme statua nelle vicinanze, oggi scomparsa. Il Colosseo doveva apparire nell'antichità con le mura perimetrali tutt'intorno la struttura in maniera perfettamente simmetrica. Oggi però manca completamente il muro esterno rivolto verso sud, tanto che il Colosseo appare asimmetrico. Cosa è successo al monumento simbolo di Roma? Fin dalla sua fondazione, l'Urbe non fu mai immune da scosse sismiche provenienti soprattutto dai colli Albani. Il V e l'VIII secolo furono fra i periodi sismicamente più attivi, ma fu il terremoto del 1348 a fare i danni maggiori. Come risultato di questi sismi, una gran parte delle mura esterne del Colosseo crollarono. Gli enormi blocchi caduti furono riutilizzati per la fabbricazione di altri edifici cittadini o semplicemente cotti per produrre calcina! Per quale motivo la parte sud fu così colpita mentre il resto delle mura perimetrali rimase in piedi? Secondo studi recenti mentre la parte nord poggia su sedimenti piuttosto antichi (pleistocenici), la parte sud fu edificata sui sedimenti alluvionali più recenti di un piccolo affluente del Tevere. Gli ingegneri romani non potevano saperlo, ma costruirono il Colosseo per metà su suolo solido e per metà su terreno di cattive caratteristiche sismiche. È stato dimostrato con simulazioni al computer che a causa di questa disomogeneità la parte sud del Colosseo fu molto più colpita dai terremoti appenninici di quella nord...Il primo a notare che un sedimento superficiale poco coerente può amplificare le oscillazioni del terreno fu un sismologo statunitense, John Milne, nel 1898. Quando un'onda si propaga da un mezzo molto rigido come la roccia a uno poco rigido come le argille, deve diminuire di velocità. Poiché l'energia delle onde deve conservarsi, l'ampiezza dell'onda deve aumentare per compensare la diminuzione di velocità. Un aumento di ampiezza significa oscillazioni del terreno maggiori. Questo fenomeno non riguarda solo le onde sismiche ma anche altri fenomeni ondulatori come gli tsunami. Pertanto, fra le 3 costuzioni [nella] figura [seguente], è quella in A, totalmente appoggiata su roccia solida (in grigio scuro) a essere più sicura. 











La costruzione in B, che sorge sopra sedimenti incoerenti come possono essere le argille di un antico lago o sabbie di un'ansa fluviale (grigio chiaro), durante un terremoto è soggetta a fenomeni di amplificazione delle onde sismiche. Infine l'edificio C, per metà su terreni rigidi e per l'altra metà su quelli poco consolidati, rappresenta un po' la situazione del Colosseo. La parte su suolo rigido subisce solo l'effetto diretto del terremoto, senza amplificazioni aggiuntive. Ma la parte sinistra, sul terreno poco consolidato, può subire maggiore distruzione. I danni subiti possono essere particolarmente gravi in quanto il suolo reagisce in maniera così diversa nelle 2 parti. Le caratteristiche del suolo sono quindi assai importanti per valutare la distruzione provocata da un terremoto. Quante volte abbiamo pensato al suolo come qualcosa di eternamente rigido? Ne siamo proprio sicuri? [Si pensi ad esempio al] terremoto avvenuto a Niigata nel 1964...La liquefazione del suolo non è rara. È stata osservata in terremoti come quelli di Loma Prieta del 1989 o di San Francisco del 1906...È possibile che l'origine del cedimento del suolo nella parte sud del Colosseo sia stata anche una parziale liquefazione. Secondo un'antica profezia apparsa per la prima volta in un manoscritto dell'VIII secolo, il Colosseo rimarrà in piedi fino a quando non cadrà l'intera città di Roma; e se crolla Roma, il mondo intero la seguirà. Per fortuna del mondo il Colosseo ha resistito a molti terremoti ed è ancora in piedi, con qualche ferita"!   

Come ciliegina sulla torta, 2 suggestivi video sulla liquefazione:



giovedì 21 giugno 2012

DE L'HÔPITAL E IL QUESITO DELL'ESAME DI STATO!

Giusto per divertirci un po' con la matematica, andiamo a risolvere il quesito n.1 del compito di matematica PNI (ovvero quello per i licei scientifici sperimentali) dell'esame di maturità, di stamattina.
Il quesito chiede di risolvere il seguente limite:




Se procediamo andando a sostituire alla x lo 0 ricadiamo in una forma indeterminata del tipo 0/0.
Provate!
Quando ci troviamo di fronte ad una forma indeterminata significa che non possiamo calcolare il limite direttamente ma dobbiamo compiere alcune manipolazioni o sfruttare alcune regole.
In tal caso ci conviene utilizzare il cosiddetto Teorema di de l'Hôpital.
Scopriamo l'enunciato: siano f(x) e g(x) 2 funzioni derivabili nell'intervallo [a, b], escluso il punto c, e tali che:

 


se la derivata di g(x) è diversa da 0, ossia g'(x) ≠ 0  ∀x ∈ [a, b], escluso c, e se esiste il limite:





allora esiste pure il limite per x → c del rapporto f(x)/g(x) e i 2 limiti coincidono.
Ergo:





Questo teorema è molto utile appunto per il calcolo delle forme indeterminate 0/0.
Dunque, dobbiamo derivare le funzioni presenti al numeratore e al denominatore della funzione complessiva




Cominciamo dal numeratore!
Dobbiamo applicare la nota regola della catena per calcolare la derivata di una funzione composta.
Dobbiamo usare la suddetta regola per le 2 parti del numeratore.

A = 3x           A' = 3
B = 2^A        B' = 2^A ln 2

(2^3x)' = 3 x 2^A ln 2 = 3 x 2^3x ln 2.

Abbiamo sfruttato anche il fatto che la derivata di una funzione del tipo a^x = a^x ln a, dove ln a indica il logaritmo naturale di a.
Stessa cosa dobbiamo fare per 3^4x:

A = 4x          A' = 4
B = 3^A       B' = 3^A ln 3

(3^4x)' = 4 x 3^A ln 3 = 4 x 3^4x ln 3.

Quindi, in complessivo, la derivata del numeratore è:




La derivata del denominatore è invece banale:



Ora, andiamo dunque a fare, seguendo il Teorema di de l'Hôpital, il limite del rapporto tra le derivate:




In analisi matematica, un numero diviso 0 fornisce infinito.
In questo specifico caso, il risultato è -∞, poiché al numeratore si ha una quantità negativa (3 ln 2 - 4 ln 3) e al denominatore uno 0 (da destra), ossia positivo.
Per concludere, qualche piccola curiosità su Guillaume François Antoine, marchese de l'Hôpital (1661-1704).
L'Hôpital nacque in una ricca famiglia.
Il padre, Anne-Alexandre, era un "pezzo grosso" dell'epoca; infatti, tra le altre cose, fu generale dell'esercito del Re.
Se, da piccolo, il piccolo Guillaume intraprese una carriera militare, in seguito dovette abbandonarla a causa di rilevanti problemi alla vista.
Ergo, il suo interesse si spostò verso la Matematica.
Nei primi anni '90 del XVII secolo, de l'Hôpital ingaggiò Johann Bernoulli (per approfondimenti sui Bernoulli, recatevi all'articolo "Una famiglia di matematici: i Bernoulli") affinché gli insegnasse il calcolo infinitesimale.
Il marchese si mostrò così interessato all'argomento che lo imparò in breve tempo e che riassunse in un manuale intitolato Analyse des infiniment petits pour l'intelligence des lignes courbes, datato 1696.  
Il suddetto rappresenta il primo manuale di calcolo infinitesimale d'Europa!
Rouse Bell scrive a proposito del libro di de l'Hôpital:

"Il merito di aver redatto il primo trattato che spiega i principi e l'uso del metodo va tutto a de l'Hôpital...Questo lavoro ebbe ampia circolazione; rese la notazione differenziale di uso comune in Francia e contribuì a diffonderla in Europa."

Sappiamo che de l'Hôpital, dal 1694, pagò Bernoulli ben 300 franchi all'anno per raccontargli delle sue scoperte, descritte poi nel suo testo.
Nel 1704, a seguito del decesso di de l'Hôpital, Bernoulli raccontò dell'accordo, asserendo che molti dei risultati nell'Analyse des infiniment petits erano opera sua!

domenica 17 giugno 2012

COS'È LA DATAZIONE AL CARBONIO-14?

Molto spesso sentiamo parlare di una tecnica sperimentale, la datazione al carbonio-14, utilizzata allo scopo di datare materiali aventi origine organica, ad esempio, un animale fossile.
Tuttavia, non è altrettanto ben noto in cosa essa consista esattamente.
Dunque, andremo ad analizzare brevemente il metodo del carbonio-14.
Prima di far ciò, però, andiamo ad approfondire meglio il processo noto come decadimento radioattivo, decisamente importante ai fini della nostra trattazione.
Il decadimento radioattivo è un processo tramite cui un nuclide (termine introdotto nel 1947 da Truman Kohman, indicante un nucleo atomico di cui si conoscano il numero atomico Z e il numero di massa A) cambia spontaneamente la sua natura.
Il suddetto è un fenomeno puramente nucleare, per niente influenzato dalla presenza o dalla natura di legami molecolari con altri nuclidi o da campi elettromagnetici esterni.
Un nuclide che può essere sottoposto a decadimento viene chiamato radionuclide (o radioisotopo, se risulta isotopo di qualche altro nuclide).
Ovviamente, il decadimento radioattivo è un processo basato sulla Meccanica Quantistica!
Indicando con λ la costante di decadimento radioattivo, con N la quantità di radionuclidi contenuti nel campione considerato e con δNd il numero di nuclidi soggetti a decadimento in un intervallo di tempo δt, possiamo scrivere la relazione:



Il decadimento radioattivo è inoltre un processo puramente statistico e i conteggi seguono la distribuzione di Poisson, di cui abbiamo parlato nell'articolo "2 distribuzioni importanti: poissoniana e binomiale".
Ipotizzando che l'unica variazione del numero di radionuclidi sia dovuta al decadimento, il loro numero subirà quindi una variazione di una quantità:



Ponendoci in una prospettiva in cui gli intervalli di tempo risultano infinitesimi, cioè avvalendoci del calcolo differenziale, possiamo scrivere la seguente equazione:




Da qui dobbiamo pervenire ad un'importante formula, denominata legge di Rutherford-Soddy.
Proviamo a ricavarcela mediante una serie di passaggi matematici.
Prendiamo dunque l'equazione precedente e applichiamo il cosiddetto metodo di separazione delle variabili: in tal caso, significa porre i termini N e dN tutti in un membro dell'equazione, e dt nell'altro membro:




A questo punto, dobbiamo integrare entrambi i membri:





Esplicitiamo i nostri integrali definiti, ricordando che l'integrale di una qualsivoglia forma 1/x è pari al logaritmo naturale di x stesso (ln x):




Poniamo per semplicità t0 = 0 e sviluppiamo la parentesi quadra:



Sfruttando la proprietà dei logaritmi, la quale ci dice che la differenza di logaritmi equivale al logaritmo del quoziente degli argomenti, abbiamo che:




Passando agli esponenziali:




Attraverso un'ultima banale manipolazione, otteniamo finalmente la nota legge di Rutherford-Soddy:



In parole povere, più tempo trascorre, più il campione considerato perderà la sua radioattività.
Una domanda lecita che il lettore potrebbe porsi: ma chi diavolo è Soddy?
Frederick Soddy (1877-1956) è stato un importante chimico e fisico britannico, che, tra le altre cose, formulò il noto concetto di isotopo, vincendo il premio Nobel per la Chimica nel 1921.
In una memoria risalente al 1903, Ernest Rutherford (Nobel per la Chimica nel 1908) e Soddy chiarirono diversi punti delle loro ricerche inerenti ai fenomeni radioattivi.
Dopo aver studiato con precisione il comportamente delle particelle α, i 2 scienziati passarono a misurarne alcune caratteristiche, trovando che il rapporto fra la loro carica e la loro massa (q/m) restituiva un valore che faceva pensare che la loro massa fosse dello stesso ordine di grandezza di quella dell'atomo di idrogeno.
Inoltre, capirono che quasi tutto il fenomeno della radioattività dipendeva da esse, le quali erano espulse per prime dalle sostanze radioattive e, solo in un secondo momento, seguite da particelle β (per informazioni sui decadimenti α e β e non solo, vi consiglio di recarvi all'articolo "Reazioni nucleari").
I 2 scienziati pervennero alla conclusione che "alla luce di questa evidenza c'è ogni ragione per supporre che l'espulsione di una particella carica non accompagni semplicemente la mutazione, ma che questa espulsione sia la reale mutazione", ovvero la responsabile di cambiamenti chimici nella materia.
Inoltre, "poiché la radioattività è una proprietà specifica dell'elemento, il sistema mutante deve essere l'atomo chimico e, poiché un solo sistema è implicato nella produzione di un nuovo sistema e di una particella pesante carica, nel mutamento radioattivo l'atomo chimico deve subire una disintegrazione".
L'atomo perdeva dunque parti che lo caratterizzavano, prima particelle α e, in seguito, particelle β.
Appunto nella medesima memoria, compariva anche un esplicito riferimento alla formula del decadimento radioattivo che ci siamo ricavati:



La costante di decadimento λ è legata ad altri 2 importanti parametri:

1) la vita media τ, definita come:




2) il tempo di dimezzamento, definito come:

 


Oltre a queste, possiamo definire altre 2 grandezze fondamentali:

1) l'attività (ossia il numero di conteggi per unità di tempo):





2) l'attività specifica, ovvero l'attività diviso la massa del campione:




Dopo tale doverosa premessa, finalmente possiamo giungere al nocciolo della questione: la datazione al carbonio-14 (o radiocarbonio).
Il 14C è un isotopo (ha 6 protoni ed 8 neutroni) radioattivo del carbonio di origine cosmogenica, avente un tempo di dimezzamento pari a 5730 anni, e scoperto il 27 febbraio 1940 dai biochimici Martin Kamen e Sam Ruben al laboratorio radiologico dell'Università della California, a Berkeley.
Tuttavia, la sua esistenza era già stata congetturata nel 1934 dal fisico americano Franz Kurie.
Il metodo di datazione mediante il radiocarbonio è stato proposto nel 1945 dal chimico Willard Frank Libby, il quale, proprio per la suddetta scoperta, fu insignito del premio Nobel per la Chimica nel 1960.
Il carbonio possiede 3 isotopi, di cui 2 stabili (carbonio-12 e carbonio-13) e uno radioattivo, il carbonio-14 appunto!
Il 14C è incessantamente prodotto nell'alta troposfera e nella stratosfera terrestre (ricche di azoto-14, il cui simbolo è 14N) come risultato del bombardamento dei raggi cosmici, particelle ad elevata energia, le quali spezzano i nuclei dei gas atmosferici, causando il rilascio di neutroni.
Alcuni di questi neutroni, resi liberi in cotale maniera, vengono assorbiti dagli atomi di azoto (ricordiamo che il suo numero atomico è Z = 7), che, di conseguenza, emettono un protone dai loro nuclei.
Ne consegue che il loro numero atomico diminuisce di una unità (passa cioè da 7 a 6), e si forma proprio un elemento differente: il carbonio-14.
In termini rigorosi, avviene la seguente reazione chimica:


    

Dopodiché, il radiocarbonio reagisce celermente con l'ossigeno generando l'anidride carbonica, una sostanza che, come ben noto, viene assorbita da piante ed animali.
Ne deriva che tutti gli organismi, esseri umani compresi, contengono una piccola quantità di carbonio-14.
Finché un organismo rimane in vita, il radiocarbonio che decade viene continuamente rimpiazzato da altro radiocarbonio; ergo, il rapporto tra 14C e 12C (molto più abbondante del "fratello" radioattivo) resta costante e uguale a quello sussistente nell'atmosfera.
Tutto cambia non appena una pianta o un animale cessa di vivere.
Infatti, non essendoci più scambi di carbonio con l'esterno da parte dell'organismo, la quantità di carbonio-14 comincia a decrescere sempre più, man mano che il radionuclide decade (attraverso l'emissione di particelle β), trasformandosi nuovamente in azoto-14.

















Sicché è possibile determinare l'età di un reperto misurando il rapporto tra la quantità di carbonio-14 e di carbonio-12 che il suddetto contiene.
A causa del decadimento, la concentrazione di radiocarbonio nel campione esaminato diminuisce in modo regolare, seguendo un'espressione analoga alla legge di Rutherford-Soddy:




 ove:
  • c0 = concentrazione di carbonio-14 nell'atmosfera;
  • Δt = tempo trascorso dal decesso dell'organismo;
  • τ = vita media del radiocarbonio, equivalente a:



Misurando pertanto la quantità di carbonio-14 presente nei resti organici, se ne può ricavare l'età sfruttando la seguente equazione (ricavata dalla variante della legge di Rutherford-Soddy):



Risulta importante specificare che tale tecnica ha i suoi limiti: infatti, è utile per datare campioni di età fino ai 50.000 anni!
Oltre tale età, è necessario far uso di ulteriori metodi, radiometrici e non.
Sussistono 2 possibili tecniche per portare alla luce il rapporto tra 14C e 12C di un reperto:

1) Metodo di Libby o Metodo del contatore proporzionale: con un contatore Geiger o tramite un'apparecchiatura analoga si misura l'attività radioattiva β del campione. È stata la prima tecnica a venir utilizzata;
2) Metodo AMS, fondato sulla Spettroscopia di Massa Atomica (AMS): sfruttando uno spettrometro di massa si misura direttamente la concentrazione di carbonio-14 presente nel reperto. Tale metodo è sicuramente più recente, dato che è stato inaugurato a partire dagli anni '70.

Tirando le fila del discorso, abbiamo cercato di chiarire al meglio il metodo sperimentale del carbonio-14 (una tecnica estremamente utile, ma, come abbiamo potuto constatare, avente dei rilevanti limiti), senza trascurare gli aspetti matematici alla base del suddetto.