venerdì 26 agosto 2011

LA FISICA IN MONTAGNA (E NON SOLO)!

L'estate è generalmente sinonimo di vacanza.
Le mete predilette di coloro che vogliono trascorrere le vacanze all'aperto sono quasi sempre il mare o la montagna.
Anche queste occasioni sono pervase ovviamente dalla fisica.
In tal contesto, andremo ad analizzare alcune situazioni, fenomeni, concetti che possiamo riscontrare in montagna, attraverso la fisica!
Ad esempio, perchè in montagna la pressione non è quella che sussiste al livello del mare, ma inferiore?
Per rispondere a tale interrogativo, intanto dobbiamo definire cosa è la pressione.
Essa è semplicemente il rapporto fra la forza che agisce su una certa superficie e la superficie stessa:

p = F/S

Evangelista Torricelli, discepolo di Galileo Galilei, nel 1643 effettuò un particolare esperimento per misurare la pressione atmosferica, avvalendosi di un tubo di vetro cavo lungo all'incirca un metro, sigillato ad una estremità, e di una bacinella colma di mercurio (Hg).
In parole semplici, egli riempì il tubo del liquido (ricordiamo che il mercurio è uno dei pochi metalli che si presentano allo stato liquido a temperatura ambiente), tappò con un dito l'estremità aperta del tubo e lo capovolse, immergendolo in una bacinella contenente altro mercurio.
Dunque tolse il dito dalla fessura soltanto quando l'estremità aperta fu situata sotto la superficie.
Nel momento in cui l'estremità aperta del tubo è immersa nel liquido, quest'ultimo resta dov'è e una colonnina si alza sopra la superficie.
Da tale risultato, lo scienziato comprese che il fatto che si manifestasse una colonnina di mercurio era dovuto sia al peso del mercurio nel tubo, sia a quello dell'atmosfera sopra di esso.
In altri termini, per eguagliare la pressione esercitata dall'atmosfera sul mercurio nella bacinella, il mercurio nel tubo deve essere situato ad una certa altezza, che ammonta a circa 76 cm.
Se il tubo è lungo 1 metro, la colonnina di mercurio si alza per 76 cm: fin qui ci siamo.
Ora, cosa ci sta nei rimanenti 24 cm del tubo?
Torricelli aveva realizzato l'esperimento con cura, in maniera tale che l'aria non entrasse nel tubo.
Se non c'è aria, cosa è situato in quei restanti 24 cm?
La risposta è: il vuoto.
Torricelli era riuscito a realizzare il vuoto.
Ricordiamo che Aristotele aveva affermato che la natura ha orrore del vuoto (horror vacui), ma si trattava di un grave errore.
Lo stesso concetto di vuoto, nel momento in cui fu confermata la sua veridicità, servì per dimostrare l'inesattezza di un ulteriore assunto aristotelico, confutato da Galileo.
L'assunto è questo: per Aristotele, un corpo più pesante giunge a terra prima di uno più leggero.
Ad esempio, una pietra cade prima di una piuma!
Galileo, al contrario, portava avanti convinzioni antitetiche rispetto al noto filosofo greco, ritenendo che in realtà il fatto che il corpo più pesante cada prima a terra di quello più leggero, non dipende dalle proprietà intrinseche del corpo stesso, bensì dall'attrito esercitato dall'aria.
Con l'invenzione della pompa a vuoto si poté verificare che Galileo aveva ragione e Aristotele invece torto, 2 volte!
La natura non ha orrore del vuoto e tutti i corpi cadono a terra nel medesimo istante, nel "vuoto".
Persino gli astronauti che sono pervenuti sulla Luna, dove non è presente atmosfera, hanno verificato che Galileo aveva ragione!
Il vuoto, tra l'altro, è altamente presente in natura, più di quanto si creda.
Pensiamo ad un atomo.
Esso, come ben celebre, è costituto (nel modello semplificato) da un nucleo fatto di protoni e neutroni, attorno al quale girano altre particelle elementari (leptoni) dette elettroni.
Bisogna dire che tra il nucleo e gli elettroni sussiste una gran quantità di "spazio vuoto".
Infatti, l'atomo è apparentemente un vuoto perfetto: per il 99,9999999999999% è "spazio vuoto".
Prima di ritornare alla questione della pressione, rimaniamo un attimo sulla questione dei corpi lanciati da una certa altezza h fino a terra.
Perché se cadiamo dalla cima di una montagna ci sfracelliamo al suolo e moriamo (almeno che non supponessimo di essere Superman, cosa alquanto improbabile!), e se invece cadiamo da una sedia ci facciamo male, ma è un danno limitato?
La risposta è banale: a causa della gravità, anzi più precisamente dell'energia potenziale gravitazionale.
L'energia potenziale gravitazionale è definita come:

U = mgh,

dove:
 
- m = massa;
- g = accelerazione di gravità sulla Terra, corrispondente a circa 9,8 m/s²;
- h = altezza.

Più il corpo (o grave, come si è soliti denominarlo in fisica) è posto in alto, più avrà un "potenziale" di guadagnare energia cinetica (E = 1/2 mv²) per mano della gravità terrestre.
Inoltre, un grave in caduta libera (in un sistema di riferimento che ha verso positivo allontanandosi dal suolo) può essere descritto per mezzo di queste elementari equazioni, che non sono altro che semplici modificazioni di quelle inerenti il moto rettilineo uniformemente accelerato:

a = -g
v = v - gt
s = s + vt - 1/2 gt²

dove:

- a = accelerazione;
- v₀ = velocità iniziale;
- s₀ = posizione iniziale;
- t = intervallo di tempo.

Ovviamente, se provate a derivare (in funzione del tempo) l'ultima equazione otterrete la seconda, se la derivate ancora una volta otterrete la prima: provate se non ci credete!
Utilizzando il procedimento dell'integrazione, invece, possiamo seguire il percorso inverso: partiamo dalla prima equazione per giungere all'ultima.
La derivazione e l'integrazione sono infatti operazioni inverse fra loro.
Per quanto riguarda la derivazione e l'integrazione vi rimando all'articolo "Derivate e Integrali Indefiniti: storia, proprietà e applicazioni in fisica".
L'accelerazione non ha a che spartire solamente con i concetti di spazio, tempo, velocità e moto.
Infatti, se facciamo pervenire alla mente la famosissima seconda legge della dinamica (o di Newton), sappiamo che F = ma, ed ergo:

a = F/m

Se scrivessimo l'accelerazione come a = Δv/Δt, otterremmo:

FΔt = mΔv

Questa non è altro che la legge, chiamata Teorema dell'impulso, stabilente l'equivalenza tra la variazione della quantità di moto di un corpo (mΔv) e l'impulso (FΔt).
Sfruttando la definizione di quantità di moto, si può scrivere una forma più generale della seconda legge di Newton:

F = dp/dt

dove il simbolo dp rappresenta ovviamente la derivata della quantità di moto, in funzione del tempo dt.
Tale relazione si può utilizzare sia nel caso la massa risulti costante, sia se non lo fosse.
La quantità di moto e l'impulso sono grandezze fisiche importanti per quanto concerne gli urti.
È necessario specificare che la formula FΔt = mΔv ha senso solo se, nell'intervallo Δt, la forza F si mantiene costante.
Se F fosse variabile (in direzione, verso e modulo, visto che è una grandezza vettoriale!), allora risulta necessario calcolare l'impulso in moltissimi (infiniti) intervalli di tempo in cui la forza si può considerare costante e poi sommare vettorialmente tutti questi contributi.
Comunque, quali sono le relazioni dell'impulso e della quantità di moto con gli urti?
Riprendendo la relazione FΔt = mΔv, con un semplice passaggio troviamo che:






Pertanto, a parità di quantità di moto, quanto più grande è il tempo Δt in cui avviene l'impatto, tanto più piccola risulta la forza dell'urto.
Di conseguenza, quanto è più piccolo Δt, tanto più grande sarà F.
La forza dell'impatto (urto) è quindi inversamente proporzionale all'intervallo di tempo Δt.
Il suddetto principio viene applicato nel cercare di minimizzare l'urto fra 2 automobili: infatti, gli airbag hanno proprio lo scopo di cercare di diminuire più lentamente la quantità di moto del passeggero che si trova a bordo.
In altre parole, servono ad aumentare il tempo dell'impatto, in modo che la forza d'urto sia minore.
Oppure, quando cadiamo, applichiamo lo stesso principio se ci piegamo sulle gambe: minimizziamo l'urto.
Risulta ovvio il fatto che l'urto si può anche massimizzare: gli atleti che praticano arti marziali, per rompere tavolette di legno, ad esempio, cercano di dare un colpo secco e veloce, in modo che la forza d'urto sia più intensa.
La fisica sta dappertutto, anche nelle cose che sembrano non abbiamo nulla a che fare con essa!
Ora, dopo queste divagazioni sulla fisica (valide certamente anche in montagna), precisamente sulla meccanica (newtoniana) classica, ritorniamo alla questione di partenza: la pressione sulla montagna.
Ci eravamo fermati descrivendo l'esperimento di Evangelista Toricelli, che era riuscito a produrre del vuoto all'interno del tubo.
L'altro aspetto interessante del suo esperimento è il fatto che si alzasse una colonnina di mercurio alta 76 cm sopra il livello della bacinella.
L'ipotesi dello scienziato fu che la forza che sostiene il mercurio non dovesse essere ricercata all'interno del vaso, ma esternamente, nel peso esercitato dall'aria sulla superficie libera del liquido (mercurio).
Il peso dell'aria controbilanciava quello del liquido.
Ciò che aveva compiuto Torricelli non era soltanto creare il "vuoto", ma misurare pure quella che noi chiamiamo pressione atmosferica.
Ergo, la pressione dell'atmosfera al livello del mare è la stessa pressione che eserciterebbe una colonnina di mercurio alta 76 centimetri, o una colonna d'acqua di circa 11 metri!
Sorge spontanea una domanda: perché per bilanciare la pressione atmosferica ci vuole una colonna d'acqua alta la bellezza di 11 metri, mentre per il mercurio bastano 76 cm?
Ebbene, la densità del mercurio è circa 13,6 volte maggiore di quella dell'acqua e ciò fa sì che la colonnina di mercurio risulti 13,6 volte più bassa di quella dell'acqua!
Sussiste appunto una proporzione che mette in relazione le altezze e le densità dei suddetti liquidi:




Applicando la nota proprietà delle proporzioni, ossia quella che afferma: "il prodotto dei medi è uguale al prodotto degli estremi", possiamo ricavare l'altezza dell'acqua:








Inserendo i valori dell'altezza (76 cm) e densità del mercurio, e della densità dell'acqua, otteniamo che l'altezza della colonna d'acqua è pari a 10,336 m, quasi 11 m. CVD!
Riporto la splendida descrizione inerente la pressione atmosferica presente nel libro Nulla di Frank Close:

"Al livello del mare l'atmosfera preme su di noi con una forza di circa un chilogrammo su ogni centimetro quadrato, cioè 10 tonnellate ogni metro quadrato. Una famosa dimostrazione di quanto possa essere potente l'aria fu condotta da Otto von Guericke, per 30 anni borgomastro di Magdeburgo e scienziato con un chiaro talento per la divulgazione. Nel 1654 allestì il suo "spettacolo del vuoto" con tanto di 16 cavalli, 2 emisferi cavi di bronzo dal diametro di circa un metro e l'aiuto dei vigili del fuoco della città. I 2 emisferi furono fatti aderire l'uno contro l'altro, così da ottenere una sfera. Von Guericke mostrò al pubblico che era tanto facile unirli quanto separarli. Con un senso dello spettacolo degno di un prestigiatore, invitò il pubblico a confermare quanto fosse facile dividere i 2 emisferi. Dopodiché il vero spettacolo ebbe inizio. Una pompa pneumatica, gentilmente fornita dai vigili del fuoco di Magdeburgo, venne collegata a una valvola in uno dei 2 emisferi, e l'aria fu aspirata. Dopo qualche minuto von Guericke annunciò che tutta l'aria era stata eliminata; la valvola venne chiusa, la pompa scollegata e portata via, e il pubblico fu invitato a separare i 2 emisferi. Nessuno ci riuscì. A rendere la cosa ancora più teatrale - ed è soprattutto per questo che l'evento viene ricordato - a ciascun emisfero vennero legati 8 cavalli. I libri a questo punto si limitano a raccontare che i 2 gruppi di cavalli si misero a tirare nelle 2 direzioni opposte e che gli emisferi non si staccarono. In realtà le cose andarono un po' diversamente: ognuno dei 16 cavalli la pensava a modo suo e tirò dove gli andava. Ci vollero una mezza dozzina di tentativi prima che von Guericke riuscisse a convincere i 2 gruppi a tirare in direzioni opposte con tutta la loro forza, e comunque gli emisferi si rifiutarono di staccarsi. Alla fine von Guericke aprì la valvola, l'aria cominciò a rifluire e i 2 emisferi si staccarono senza difficoltà.
Nell'esperimento di von Guericke, quando viene eliminata l'aria contenuta all'interno della sfera, tutto il peso dell'atmosfera preme sull'esterno di questa con una forza di 10 tonnellate per metro quadrato, mentre all'interno non c'è nulla a compensare questa pressione. Il bronzo era abbastanza resistente da evitare il collasso, ma neppure 2 squadre di 8 cavalli bastarono a fornire le tonnellate di forza necessaria a vincere la pressione esterna."

Adesso, a seguito di questa interessante trattazione sulla pressione, rispondiamo alla domanda iniziale dell'articolo, ossia, perché in montagna (in altri termini, con l'altezza) la pressione diminuisce?
La risposta è molto semplice: siccome la pressione è il risultato delle molecole d'aria dell'atmosfera (avente estensione limitata) che pesano una sull'altra, quando saliamo in quota, sussistono meno molecole d'aria che pesano su di noi e conseguentemente la pressione dimuisce.
Più saliamo in alto, meno è la pressione esterna che sussiste.
Il fenomeno opposto avviene in mare: se noi scendiamo in profondità, sotto il livello del mare, la pressione aumenta sempre di più.
Più precisamente, ogni 10 metri di profondità si va ad aggiungere una pressione extra che vale quanto quella dell'atmosfera!
La pressione presenta numerose unità di misura con cui può essere valutata quantitativamente:
  • pascal (Pa): prende il nome da Blaise Pascal ed è l'unità di misura ufficiale del S.I. Un pascal equivale a un newton al metro quadro (N/m²);
  • bar: 1 bar = 10⁵ Pa;
  • atmosfera: 1 atm = 1,013 · 10⁵ Pa;
  • torricelli: 1 torr = 1 mmHg = 133,3 Pa
Ovviamente, esistono multipli e sottomultipli di tali unità di misura, come l'ettopascal o il millibar.
Un altra caratteristica della montagna è il fatto che generalmente fa freddo.
Ma che cos'è il freddo?
In fisica, quando definiamo freddo un corpo, stiamo affermando che gli atomi situati al suo interno si muovono meno freneticamente (cioè possiedono meno energia cinetica) rispetto ad un altro corpo più caldo.
Quando mettiamo a contatto un corpo più caldo con un meno caldo, si genera un trasferimento di calore (o energia) dal corpo più caldo a quello più freddo.
In altre parole, i 2 corpi tendono a raggiungere l'equilibrio termico, cioè la stessa temperatura.
Ciò che si può definire il "freddo massimo in assoluto" è la famosa temperatura detta zero assoluto, equivalente a -273,15 °C.
In accordo con la terza legge della termodinamica, esso non è raggiungigibile con un numero di trasformazioni finite.
Tuttavia, gli scienziati, sono riusciti ad andarci vicinissimo con esperimenti in laboratorio.
Lo zero assoluto è uno stato in cui movimento (vibrazione) degli atomi viene quasi proprio a mancare, anche se, come spiega Richard Feynman nelle sue famose Lectures on Physics:

"Benché il ghiaccio abbia una forma cristallina "rigida", la sua temperatura può cambiare - il ghiaccio contiene calore. Se vogliamo, possiamo cambiarne la quantità di calore. Cos'è il calore nel caso del ghiaccio? Gli atomi non stanno fermi. Essi si agitano e vibrano. Così, anche se vi è un ordine definito nel cristallo - una struttura definita - tutti gli atomi vibrano "sul posto", mentre aumentiamo la temperatura essi vibrano con ampiezza sempre maggiore finché a forza di agitarsi si spostano. Noi chiamiamo ciò fusione. Quando abbassiamo la temperatura, la vibrazione diminuisce sempre di più finché, allo zero assoluto, vi è un minimo di vibrazione che gli atomi possono avere, ma non zero. Questo minimo di moto che gli atomi possono avere, non è sufficiente per fondere una sostanza con una sola eccezione: l'elio. L'elio diminuisce semplicemente i moti atomici quanto più può, ma anche allo zero assoluto vi è ancora un moto sufficiente a impedirgli di gelare. L'elio, anche allo zero assoluto, non gela, a meno che la pressione sia resa così forte da schiacciare gli atomi gli uni contro gli altri. Se aumentiamo la pressione possiamo farlo solidificare."

Dunque, non è mai molto corretto parlare di freddo; se vogliamo essere pignoli, dobbiamo parlare di minore calore o minore movimento (vibrazione) degli atomi.
Ergo, anche la neve, che riscontriamo in inverno (ma non solo), è caratterizzata da un certo calore!
È interessante notare come i cristalli di neve che si formano rappresentino molto spesso dei perfetti esempi di frattali, forme geometriche che si ripetono nella medesima maniera su differenti scale.

 
















L'analogo di questa situazione lo riscontriamo con il concetto di buio.
In fisica, è meglio parlare di assenza di luce.
Infatti, un buco nero appare "nero" (cioè non risulta visibile) in quanto risucchia anche la luce, e quindi non può essere osservato direttamente, ma solo attraverso gli effetti gravitazionali che esercita sugli oggetti circostanti.
Tirando le fila del discorso, abbiamo analizzato alcuni fenomeni e grandezze fisiche fondamentali che riscontriamo in montagna, soffermandoci soprattutto sulla pressione, ma visto che la fisica è onnicomprensiva, non sono mancati collegamenti con i concetti di atomo, buco nero, vuoto, calore, ecc. e la descrizione di leggi fondamentali della meccanica classica.
Vorrei concludere la trattazione riportando alcuni brani musicali inerenti la montagna:











domenica 21 agosto 2011

UN CELEBRE ALCALOIDE: LA MORFINA

In questo articolo andremo ad analizzare, specialmente dal punto di vista chimico, ma non solo, uno fra i più noti alcaloidi naturali sussistenti: la morfina.
Iniziamo compiendo un piccolo excursus storico-geografico inerente il papavero da oppio (pianta da cui si ricava tale sostanza bioattiva) tratto dal libro I Bottoni di Napoleone di Penny Le Couteur e Jay Burreson:

"Pur essendo oggi associato principalmente al Triangolo d'oro (le regioni di confine fra la Birmania, il Laos e la Tailandia), il papavero da oppio (Papaver somniferum) è nativo del Levante mediterraneo. È presumibile che i prodotti del papavero da oppio siano stati raccolti e apprezzati fin dalla Preistoria. Ci sono indizi del fatto che più di 5000 anni fa le proprietà dell'oppio erano note nella regione del delta dell'Eufrate, che è generalmente ritenuta il luogo della più antica civiltà umana riconoscibile. Indicazioni archeologiche del fatto che l'oppio era usato almeno 3000 anni fa sono venute in luce a Cipro. L'oppio figura negli elenchi delle piante e dei rimedi di greci, fenici, minoici, egizi, babilonesi e altri popoli dell'antichità. Presumibilmente intorno al 330 a.C. Alessandro Magno portò l'oppio in Persia e in India, da dove la sua coltivazione si diffuse lentamente verso est, fino a raggiungere la Cina attorno al VII secolo. Per secoli il papavero da oppio rimase un'erba medica, i cui princìpi attivi venivano assunti o come un'infusione amara o nella forma di una pallina arrotolata. Nel Settecento e soprattutto nell'Ottocento, in Europa e negli Stati Uniti, artisti, scrittori e poeti usarono l'oppio per raggiungere uno stato mentale simile al sogno, che si pensava migliorasse la creatività. Essendo meno costoso dell'alcol, fu usato anche dai poveri per procurarsi stati d'ebbrezza a buon mercato. Durante quegli anni la sua capacità di creare dipendenza, se fu riconosciuta, raramente creò preoccupazione. Il suo uso era così generalizzato che persino a neonati e a bambini venivano somministrati preparati con oppio che venivano pubblicizzati come sciroppi calmanti e cordiali, e che contenevano fino al 10% di morfina. Il laudano, una soluzione di oppio in alcol spesso raccomandata alle donne, era di uso molto comune ed era disponibile senza ricette in tutte le farmacie. Esso rimase una forma socialmente accettabile di oppio finché non fu proibito all'inizio del XX secolo."    

Questo passo ci fa già comprendere come solamente da circa un secolo sono stati riconosciuti effettivamente gli effetti nocivi dell'oppio, e conseguentemente, della morfina, la quale è sì vero che viene utilizzata ancora oggi come analgesico, ma generalmente solo in rari casi, poiché costituisce una vera e propria droga scatenante, soprattutto se assunta per lunghi periodi e in ingenti dosi, i gravi fenomeni di dipendenza fisico-psicologica e assuefazione (morfinismo).
Risulta necessario dire che l'oppio rappresenta un latice appiccicoso estratto dalla capsula del papavero sopra citato e poi fatto essiccare, contenente ben 24 alcaloidi differenti.
Ripredendo un attimo il discorso introdotto dal saggio I Bottoni di Napoleone, dobbiamo affermare che nell'era del Romanticismo e in quella del Decadentismo, numerosi poeti, scrittori, artisti, intellettuali assumevano sostanze stupefacenti in quanto credevano che esse li avrebbero condotti a scoprire la "realtà nascosta" che sottende l'Universo, che potrebbe identificarsi con l'inconscio, facente parte della cosiddetta I Topica del padre della psicoanalisi, Sigmund Freud.
Ad esempio, il poeta romantico inglese Samuel Taylor Coleridge era schiavo dell'oppio, lo scrittore e giornalista Thomas de Quincey aveva scritto le Confessioni di un mangiatore d'oppio (1821).
Proprio prendendo spunto da quest'ultimo, Charles Baudelaire, il "poeta maledetto", scrisse un saggio sugli effetti delle droghe dal titolo I paradisi artificiali (1860).
Ergo, la "cultura della droga", destinata purtroppo ai noti sviluppi a cui assistiamo oggi, ha le sue radici in area romantico-decadente, in cui si ritiene che l'uso delle sostanze stupefacenti e psicotrope potenzi addirittura all'infinito le facoltà umane, sottraendole allo squallido meccanismo delle comuni azioni quotidiane e ai vincoli mortificanti imposti dalla ragione.
Le droghe erano per i romantici e per i decadenti delle porte per immergersi in orizzonti ignoti e affascinanti, e degli strumenti (assieme alla musica, che, ovviamente, a differenza delle suddette sostanze, non risulta nociva) per raggiungere uno stato di "estasi", arrivando a contemplare l'assoluto, il noumeno kantiano!
Adesso fermiamoci con la trattazione filosofica-letteraria ed entriamo nel vivo, ossia nel campo specifico della chimica!
Innanzitutto, abbiamo detto in precedenza che l'oppio contiene la bellezza di 24 alcaloidi diversi.
Ma cosa sono gli alcaloidi?
Gli alcaloidi sono composti vegetali che posseggono uno o più atomi di azoto, solitamente come parte di un anello di atomi di carbonio.
Non a caso, essi hanno gruppi amminici (composti organici, derivati dell'ammoniaca (NH3), contenenti appunto azoto) che concorrono a fargli assumere un carattere basico.
Gli alcaloidi, coerentemente con quanto illustrato prima, hanno sicuramente avuto un ruolo più importante nella storia umana rispetto a qualunque altro gruppo di sostanze chimiche.
Ritornando alla morfina, essa costituisce circa il 10% dell'oppio grezzo.
Fu isolata per la prima volta, nel 1803, dal latice del papavero da un farmacista tedesco, Friedrich Serturner, il quale denominò il composto appunto morfina, ispirandosi a Morfeo, il dio romano del sonno.
Per inciso, secondo la mitologia, Morfeo è uno dei 1000 figli del Sonno (Ipno) e di Notte.
Il suo nome (derivato dalla parola greca che significa "la forma") indica proprio la sua funzione: è incaricato di assumere la forma di esseri umani e di mostrarsi agli uomini addormentati, durante i loro sogni.
Alla stregua della maggior parte delle divinità del sonno e dei sogni, Morfeo è alato.
Possiede grandi ali rapide, che sbattono senza fare alcun rumore e lo portano all'estremità della Terra in un attimo.
Serturner non poteva scegliere nome più adatto alla sostanza da lui isolata.
Infatti, la morfina (la cui formula bruta è C17H19NO3) è un narcotico, cioé una sostanza che inibisce i sensi (allievando fortemente il dolore; non a caso, in medicina viene considerata un potente analgesico per il trattamento del dolore cronico o acuto) e induce il sonno.
A proposito della morfina e non solo, sempre Penny Le Couteur e Jay Burreson ci illustrano che:

"Intense ricerche chimiche seguirono alla scoperta di Serturner, ma la struttura chimica della morfina non fu determinata fino al 1925...Oggi la morfina e composti affini sono ancora fra gli anestetici più efficaci che si conoscano. Purtroppo l'effetto anestetico o analgesico sembra essere correlato alla dipendenza. La codeina, un composto simile che si trova nell'oppio in quantità molto minori (dallo 0,3 al 2%), causa una dipendenza molto minore, ma è anche un analgesico meno potente. La differenza di struttura è molto piccola.











Molto tempo prima che si conoscesse la struttura completa della morfina, furono fatti tentativi di modificarla chimicamente nella speranza di produrre un composto che fosse un anestetico migliore senza creare dipendenza. Nel 1898, nel laboratorio della Bayer, l'azienda produttrice di coloranti nella quale, 5 anni prima, Felix Hofmann aveva curato il padre con acido acetilsalicilico, i chimici sottoposero la morfina alla stessa reazione di acetilazione che aveva convertito l'acido salicilico in Aspirina. Il loro ragionamento era logico. L'Aspirina si era rivelata un analgesico eccellente, e molto meno tossico dell'acido salicilico. Il prodotto della sostituzione degli H dei 2 gruppi OH della morfina con gruppi CH3CO si rivelò però del tutto diverso. A prima vista i risultati parvero promettenti. La diacetilmorfina era un narcotico ancora più potente della morfina, così efficace da poter essere somministrata anche a dosi estremamente basse. La sua efficacia mascherava però un problema importante, che risulta subito chiaro non appena si conosce il nome con cui la diacetilmorfina viene designata più comunemente. Messa in origine sul mercato col nome di eroina, è una delle droghe che danno maggiore dipendenza. Gli effetti fisiologici della morfina e dell'eroina sono gli stessi; nel cervello i gruppi diacetile dell'eroina vengono riconvertiti negli originali gruppi OH della morfina. La molecola dell'eroina viene però trasportata più facilmente della morfina attraverso la barriera ematoencefalica, producendo l'euforia rapida e intensa che è oggetto di un forte desiderio in coloro che ne sono diventati dipendenti. L'eroina della Bayer, ritenuta all'inizio esente dai comuni effetti collaterali della morfina (come la nausea e la costipazione) - si supponeva non creasse neppure dipendenza -, fu messa sul mercato come un sedativo della tosse e un rimedio contro il mal di testa, l'asma, l'enfisema e persino la tubercolosi. Quando però divennero chiari gli effetti collaterali di quella che veniva giudicata una "super Aspirina", la Bayer smise tacitamente di pubblicizzarla....Oggi la maggior parte dei Paesi proibiscono l'importazione, la produzione o il possesso di eroina. Tutto questo non è servito però a bloccarne il commercio illegale. I laboratori creati per produrre eroina a partire da morfina hanno il problema importante di come liberarsi dell'acido acetico, uno dei prodotti secondari della reazione di acetilazione. L'acido acetico ha un odore molto caratteristico, quello dell'aceto, che è una soluzione al 4% di quest'acido. Spesso quest'odore segnala alle autorità l'esistenza di un produttore illegale di eroina. Specialmente i cani poliziotti addestrati possono scoprire deboli tracce di odore di aceto, molto inferiori al livello della sensibilità olfattiva umana. 
 







La ricerca sul perché la morfina e alcaloidi simili siano analgesici così efficaci suggerisce che la morfina non interferisca con i segnali nervosi inviati al cervello. Essa modificherebbe, invece, selettivamente il modo in cui il cervello riceve tali messaggi, ossia il modo in cui il cervello percepisce il dolore segnalato. La molecola di morfina sembra essere in grado di occupare e bloccare un recettore del dolore nel cervello....La morfina imita l'azione delle endorfine, composti presenti in bassissime concentrazioni nel cervello, le quali servono ad attenuare il dolore e aumentano la loro concentrazione in tempi di stress."            

Riassumendo, quindi, dalla morfina, mediante delle specifiche reazioni di acetilazione, si può produrre una sostanza ancora più nociva, la diacetilmorfina, non altri che l'eroina, generante maggiore dipendenza rispetto alla morfina.
Oggi l'eroina è considerata una sostanza stupefacente illegale in moltissimi paesi.
Le 2 sostanze hanno, come si può notare dall'immagine precedente, una struttura assai simile.
La curiosità che salta immediatamente all'occhio, nella descrizione del testo sopracitato, è soprattutto l'uso dell'eroina, nei primi anni della sua realizzazione, alla stregua di un comune farmaco per curare la tosse e il mal di testa!
Inoltre, la morfina possiede un effetto analgesico simile a quello delle endorfine prodotte nel nostro organismo.
Specifichiamo che le endorfine sono polipeptidi - composti costituiti da diversi amminoacidi che vanno a creare una catena - presenti nei tessuti di animali superiori.
Esse vengono rilasciate soprattutto a seguito di un forte stress, ma pure intense emozioni possono concorrere a far sì che siano rilasciate nell'organismo umano.
Ritornando alla morfina, possiamo aggiungere che essa fa parte del gruppo dell'isochinolina (composto eterociclico - isomero della chinolina - avente formula bruta C9H7N)  e si presenta come una polvere bianca solubile in soluzioni acide e basiche, commercializzata come sale (cloridrato o solfato).
Visto che abbiamo parlato anche della tematica del sonno, vorrei concludere la trattazione con un po' di video contenenti brani musicali rilassanti.
I primi 3 sono pezzi eseguiti dalla bravissima violinista Naoko Terai, mentre gli ultimi 4 sono video realizzati dal sottoscritto relativi ad alcuni tra i brani di musica classica più rilassanti in assoluto, corredati da splendide immagini.
Buona Visione e Buon Relax!













mercoledì 10 agosto 2011

GEOMETRIA EUCLIDEA: NO, GEOMETRIE NON EUCLIDEE!

Questo articolo sarà rivolto alla trattazione della geometria, anzi delle geometrie non euclidee e dei matematici che contribuirono al loro sviluppo.
Il nome stesso fa capire che non rappresentano la solita (seppur sempre importante e valida) geometria (euclidea) che si studia a scuola.
Esse includono numerose e importanti modificazioni rispetto alla geometria "tradizionale", e stanno alla base della Relatività Generale di Einstein.
Ma perché e quando sono nate le geometrie non euclidee?
Per rispondere a tali interrogativi, però, è necessario partire da un celebre postulato della geometria euclidea: il V postulato di Euclide o Postulato delle parallele!
Tutti sapranno che il suddetto postulato, presente negli Elementi di Euclide, afferma (in maniera semplice) che "data una retta e un punto esterno ad essa, passerà una e una sola retta per quel punto che risulti parallela alla retta di partenza".
Riporto un passo tratto dal libro C'è spazio per tutti di Piergiorgio Odifreddi inerente il postulato delle parallele:

"Le parallele sono "rette che stanno su uno stesso piano, e non si incontrano in nessuna direzione". Il che giustifica il loro nome, che deriva dal greco para, "presso", e allelon, "tra loro", e significa dunque "l'una affiancata all'altra". L'ultimo dei 5 postulati riguarda le parallele, e stabilisce una condizione per accorgersi che 2 rette non lo sono:

"Se 2 rette tagliate da una trasversale formano, da una sua stessa parte, 2 angoli interni che sommano a meno di un angolo piatto, allora le 2 rette si incontrano da quella stessa parte".




Si vede anche a occhio, dalla lunghezza dell'enunciato, che il V postulato è di natura diversa dagli altri 4. Euclide ne era conscio, e non lo usò finché poté: cioè, fino alla Proposizione I.29, che dimostra l'uguaglianza degli angoli corrispondenti, e degli angoli alterni interni, di 2 rette parallele tagliate da una trasversale. Tramite quella proposizione, il V postulato viene poi usato a cascata per dimostrare le proprietà dei parallelogrammi. Ad esempio, il fatto che in un parallelogramma i lati corrispondenti sono uguali: basta infatti dividere il parallelogramma in 2 con una diagonale, e notare che i 2 triangoli che si ottengono sono uguali per il criterio ALA (Angolo-Lato-Angolo), avendo un lato (la diagonale) e i 2 angoli adiacenti (2 coppie di angoli alterni interni) uguali. Dalle proprietà dei parallelogrammi si deducono poi, sempre a cascata, anche quelle dei triangoli. Ad esempio, poiché i 2 triangoli in cui si divide il parallelogramma sono uguali, l'area di un triangolo è meta di quella del parallelogramma con la stessa base e la stessa altezza. Ci si accorge, cioè, che tutta la geometria elementare riposa sul postulato delle parallele. Molti matematici greci dopo Euclide si dedicarono allora a cercare di dimostrare il V postulato sulla base degli altri 4. Con l'obiettivo, ovviamente, di ridurre la fondazione degli Elementi ai soli primi 4 postulati, che sembravano più intuitivi ed elementari del quinto."


Per completezza, riporto gli altri 4 postulati di Euclide:

1) 2 punti si possono congiungere con un segmento rettilineo;
2) Ogni segmento rettilineo si può estendere indefinitivamente;
3) Dato un punto e un segmento, si può tracciare il cerchio avente quel punto come centro e quel segmento come raggio;
4) Tutti gli angoli retti sono uguali fra loro.

Il V postulato, nella sua formulazione originaria, appare pertanto molto più lungo, complicato e difficile da comprendere rispetto agli altri 4.
Inoltre, il fatto che esso fosse enunciato con una proposizione del tipo se.......allora, lo faceva rassomigliare più ad un teorema che a un postulato.
Ma in che modo entra in gioco la definizione, una riformulazione estremamente più semplice del V postulato, che ho riportato all'inizio della trattazione?
Come ci illustra sempre Odifreddi:

"La prima riformulazione si trova nel Commento al Primo Libro degli Elementi di Euclide di Proclo. La si usa giustamente ancor oggi, al posto di quella più macchinosa di Euclide, ma la si fa erroneamente risalire a John Playfair, che si limitò a divulgarla nel 1795 nei suoi Elementi di geometria."

Dal Commento al I libro degli Elementi di Euclide di Proclo (V secolo d.C.) risulta che ben presto venne riconosciuta una minore evidenza del V postulato in confronto a tutti gli altri, soprattutto in relazione al fatto che non può essere verificato.
Un'argomentazione, riferita da Proclo stesso, mediante la quale si cercava di dimostrare la non validità del V postulato, si connetteva direttamente a tematiche quali quelle dei noti paradossi di Zenone!
Davanti agli assillanti dubbi che il suddetto postulato sollevava, si delinearono 3 direzioni principali verso le quali i tentativi per eliminare tale imperfezione all'interno degli Elementi tendevano:

1) fornire una nuova definizione di rette parallele. Lo stesso Proclo ci ragguaglia al riguardo di un tentativo di Posidonio (circa 135-circa 50 a.C.), ma tale proposta fu scartata poiché con questa definizione non si arrivava a una vera soluzione del problema, ma solamente a spostare la questione in un'altra direzione;
2) sostituire al V postulato altre formulazioni equivalenti, ma di contenuto maggiormente intuitivo. Ad esempio, John Wallis (1616-1703) propose il seguente assioma:

"Di ogni figura ne esiste una simile di grandezza arbitraria".

Nel proporlo, Wallis faceva notare che esso non risultava molto dissimile dal III postulato di Euclide;

3) dedurre il V postulato dai precedenti, mutando il postulato in proposizione.

Proprio a partire da tali tentativi si giunse a dimostrare l'indipendenza del V postulato dai restanti 4: ergo, ciò portò alla nascita delle GEOMETRIE NON EUCLIDEE.
Rimanendo in tale prospettiva, possiamo inoltre dire che nel 1763, Georg Simon Klügel, nella sua tesi di laurea, esaminò 30 tentativi di provare il V postulato concludendo che risultavano alla fine tutti falsi o inesaurienti.
Ma fra le svariate dimostrazioni, è necessario far menzione di una, quella del padre gesuita Girolamo Saccheri (1667-1733), perché fu estremamente innovativa e aprì le porte alle geometrie non euclidee.
Infatti, come ci racconta Carl B. Boyer nella sua nota opera Storia della Matematica:

"I matematici italiani non fecero quasi nessuna scoperta fondamentale nel corso del XVIII secolo. Colui che più ci si avvicinò fu senza dubbio Girolamo Saccheri. Nell'anno stesso della sua morte pubblicò un libro intitolato Euclides ab omni naevo vindicatus (Euclide liberato da ogni macchia) in cui si sforzava con un procedimento molto elaborato di dimostrare il postulato delle parallele. Saccheri era venuto a conoscenza degli sforzi di Nasir Eddin per dimostrare il postulato quasi mezzo millennio prima, e decise di applicare a tale problema il metodo della reductio ad absurdum. Egli partiva, perciò, da un quadrilatero isoscele birettangolare, oggi noto come il "quadrilatero di Saccheri", avente i lati AD e BC uguali tra loro ed entrambi perpendicolari alla base AB. Senza usare il postulato delle parallele dimostrava facilmente che gli angoli alla "sommità" C e D erano uguali e che per essi si potevano avanzare esattamente 3 ipotesi, descritte da Saccheri come:

1) l'ipotesi dell'angolo acuto;

2) l'ipotesi dell'angolo retto;
3) l'ipotesi dell'angolo ottuso.

Mostrando che le ipotesi 1) e 3) conducevano a soluzioni assurde, egli riteneva con un ragionamento indiretto di avere dimostrato l'ipotesi 2) come conseguenza necessaria dei postulati di Euclide diversi dal postulato delle parallele. Saccheri non incontrò molta difficoltà a eliminare l'ipotesi 3), poiché assumeva implicitamente che una retta fosse di lunghezza infinita. Dall'ipotesi 1) dedusse numerosi teoremi senza incontrare alcuna apparente difficoltà. Sappiamo oggi che egli aveva inconsapevolmente costruito una geometria non-euclidea perfettamente coerente; ma Saccheri era così profondamente convinto che la geometria euclidea fosse l'unica valida da consentire che questo suo preconcetto interferisse nella logica dei suoi ragionamenti. Sebbene non vi fosse nessuna contraddizione nell'assunzione dell'ipotesi 1), egli attraverso un ragionamento contorto giunse a credere che tale ipotesi portasse a una soluzione assurda. Pertanto perdette il diritto di rivendicare a sé quella che sarebbe indubbiamente stata la più significativa scoperta del XVIII secolo: la geometria non-euclidea."




Specifichiamo che ovviamente:

1) l'ipotesi dell'angolo acuto sostiene che:



2) l'ipotesi dell'angolo retto sostiene che:



3) l'ipotesi dell'angolo ottuso sostiene che:



Dunque Saccheri:
  • da un lato: riuscì a dimostrare che l'ipotesi dell'angolo ottuso, assumendo la falsità del V postulato, genera una contraddizione. Ciò sta a significare che tale ipotesi è in contrasto con altre parti della geometria euclidea e quindi non può essere sfruttata come sostituto del V postulato;
  • dall'altro lato: non riuscì a dimostrare che l'ipotesi dell'angolo acuto è altrettanto falsa. Ciò poteva far ipotizzare che sarebbe stato possibile sostituirla al V postulato senza dar vita a una contraddizione logica con gli altri 4.
Come già affermato da Boyer, nel suo forte desiderio e ambizione di dimostrare il V postulato, Saccheri non si rese conto di aver aperto, assieme al collega svizzero Johann Henrich Lambert (1728-1777), anch'egli incamminatosi sulla stessa strada di dimostrazione per assurdo, nuove prospettive concernenti il campo geometrico, ossia di aver tracciato la strada verso le geometrie non euclidee.
Per tutto il XVIII secolo la geometria euclidea, assieme alla teoria della dinamica di Newton, veniva considerata quanto di più saldo e certo vi potesse essere nella conoscenza scientifica.
Addirittura, il filosofo Immanuel Kant (1724-1804), nel tentativo di fondare su basi certe la nostra conoscenza del mondo fenomenico, aveva individuato proprio in questi 2 pilastri la base per attribuire allo spazio e al tempo il carattere di forme a priori del sapere e aveva sostenuto che la geometria euclidea fosse "incisa nell'uomo".
Il tutto lasciava presagire il fatto che la nascita delle geometrie euclidee non sarebbe stata vista di buon occhio, tanto che uno dei più grandi matematici di sempre, se non il più grande, Karl Friedrich Gauss (1777-1855), nonostante avesse appurato che risultava possibile formulare geometrie alternative, non si azzardò a pubblicare i risultati al fine di evitare di ascoltare "le strida dei beoti", come aveva comunicato in una lettera del 1829 all'amico Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846)!
Gauss, comunque, aveva posto la sua attenzione specialmente su una delle più note e significative conseguenze del V postulato: la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a un angolo piatto (180°).
Il matematico sosteneva (giustamente) che la conoscenza dello spazio fisico circostante fosse così limitata da non consentire di poter affermare, con assoluta certezza, che, preso in tale spazio un generico triangolo, con lati di qualsivoglia dimensione, la somma delle ampiezze dei suoi angoli interni fosse sempre uguale a 180°.
Nella prima metà dell'Ottocento toccò a 2 matematici poco noti, operanti al di fuori degli ambienti maggiormente accreditati, sviluppare ed esplicitare la possibilità di dar vita a una geometria non euclidea:

1) l'ungherese Janos Bolyai (1802-1860);
2) il russo Nikolaj Ivanovič Lobačevskij (1792-1856).

A proposito di Bolyai, sempre Boyer ci racconta che:

"L'amico ungherese di Gauss, Farkas Bolyai, aveva dedicato gran parte della sua vita ai tentativi di dimostrare il postulato delle parallele. Quando venne a sapere che il proprio figlio, Janos Bolyai, si era immerso nello studio del problema delle parallele, il padre, insegnante di matematica in una città di provincia, scrisse al figlio, brillante ufficiale dell'esercito:

Per amor del cielo, ti imploro di desistere dal tentativo. Il problema delle parallele è una cosa da temere ed evitare non meno delle passioni dei sensi, poiché anch'esso può rubarti tutto il tuo tempo e privarti della salute, della serenità di spirito, e della felicità.


Il figlio, lungi dal lasciarsi dissuadere, continuò nei suoi tentativi fino a che, verso il 1829, giunse alla medesima conclusione raggiunta da Lobačevskij solo pochi anni prima. Invece di tentare di dimostrare l'impossibile, il giovane Bolyai sviluppò quella che egli chiamava "Scienza assoluta dello spazio" partendo dall'ipotesi che per un punto esterno a una retta si possono tracciare, nello stesso piano, infinite rette parallele alla retta data. Janos inviò i risultati delle proprie riflessioni al padre, che li pubblicò in forma di appendice a un proprio trattato dal lungo titolo latino Tentamen juventutem studiosam in elementa matheseos purae etc., conosciuto semplicemente con il nome di Tentamen."

Introduciamo, invece, la figura di Lobačevski con la splendida descrizione compiuta da Eric T. Bell in I grandi matematici:

"Se si ammette che il giudizio comunemente accettato sull'importanza dell'opera di Copernico sia esatto, bisogna riconoscere che, chiamando qualcuno il "Copernico" di qualsiasi disciplina, gli si fa il più bell'elogio o si pronuncia contro di lui la più severa condanna. Se si arriva a concepire quello che ha fatto Lobatchewsky creando la geometria non euclidea e se ne considera l'importanza per il pensiero umano, di cui la matematica non è che una piccola sebbene importante parte, si deve onestamente riconoscere che Clifford (1845-1879), grande geometra lui stesso e molto al di sopra di un semplice matematico, non esagerava chiamando il suo eroe Lobatchewsky, "il Copernico della geometria".


Ora, sia Lobačevskij nel suo trattato Nuovi principi della geometria con una teoria completa delle parallele del 1835, sia Bolyai, con l'appendice del sopracitato Tentamen, hanno sviluppato, in maniera indipendente, la cosiddetta GEOMETRIA IPERBOLICA.
Essa è stata così denominata prendendo spunto da una classificazione introdotta dal matematico tedesco Felix Klein (1849-1925), in cui la geometria euclidea è detta PARABOLICA.
Le conseguenze fondamentali della geometria iperbolica sono:
  • data una retta e un punto esterno ad essa non passa una e una sola parallela ad essa, bensì infinite;
  • la somma degli angoli interni di un triangolo non è 180°, ma minore di 180°;
  • 2 triangoli che hanno angoli interni congruenti sono necessariamente congruenti.
Tuttavia, è importante precisare che nella geometria iperbolica non è più possibile ricavare i risultati euclidei che dipendono strettamente dal V postulato, come ad esempio, il Teorema di Pitagora.
Il modello di spazio più rappresentativo della geometria iperbolica è sicuramente quello a forma di sella di cavallo.



Quando apparve, la geometria di Lobačevskij e Bolyai fu guardata con sospetto e molti sostennero che al suo interno vi fosse qualche contraddizione che prima o poi sarebbe emersa.
Dopo qualche decennio, i matematici riconobbero la piena legittimità di tale teoria e l'assenza di contraddizioni interne.
Un ruolo cruciale che concorse a far raggiungere questo risultato provenne dalla costruzione di modelli euclidei della geometria iperbolica.
Il termine "modello" denota una traduzione (o interpretazione) con cui i termini e i postulati di una teoria vengono riferiti a un determinato universo di oggetti.
Il modello è quindi un insieme di enti tratti da un'altra teoria, che soddisfano tutti gli assiomi della teoria data.
La prova dell'esistenza di un modello di geometria non euclidea avrebbe pertanto assicurato la non contraddittorietà di quest'ultima rispetto alla geometria euclidea.
Tutto ciò sta a significare che se si fosse riusciti a trovare il modo di realizzare uno stratagemma in grado di tradurre i concetti non euclidei in concetti euclidei, allora la geometria di Lobačevskij-Bolyai sarebbe stata rispettata alla stregua di quella di Euclide.
Fra tutti i matematici dell'Ottocento che cercarono di generare tali modelli coerenti, i più importanti sono sicuramente Eugenio Beltrami (1835-1900), Felix Klein e Henri Poincaré (1854-1912), noto per la congettura che prende il suo nome, risolta nel 2002 dal matematico russo Grigori Perelman, il quale decise di non riscuotere il premio in denaro di 1 milione di dollari messo in palio per la dimostrazione della suddetta congettura (uno dei 7 Problemi del Millennio)!
Ma la geometria iperbolica non rappresenta l'unica geometria non euclidea.
Infatti, Bernhard Riemann (1826-1866), estremamente noto per l'ipotesi che prende il suo nome, inerente la distribuzione dei numeri primi, elaborò la GEOMETRIA ELLITTICA.
Le caratteristiche principali di tale geometria sono:
  • data una retta e un punto esterno ad essa, non passa nessuna parallela alla retta data;
  • la somma degli angoli interni di un triangolo è maggiore di 180°;
  • i triangoli che hanno angoli uguali sono tutti congruenti fra loro.
In realtà, sussiste anche la GEOMETRIA SFERICA, che è simile a quella ellittica, ma con la sostanziale differenza che nella geometria sferica le rette sono linee chiuse, mentre ciò non avviene nella geometria ellittica.
Nella geometria ellittica, la distanza tra 2 punti è la lunghezza del più corto dei 2 archi di cerchio massimo che uniscono i 2 punti.



Come per Lobačevskij, riporto per Riemann un frammento del ritratto che ne fa Bell in I grandi matematici:

"È stato detto di Coleridge che scrisse solo poche opere di altissima poesia, ma che queste avrebbero dovuto essere incorniciate d'oro; si potrebbe dire altrettanto di Bernhard Riemann, i cui lavori basterebbero appena a riempire un volume in ottavo. Si può aggiungere che Riemann ha rivoluzionato tutto ciò che ha trattato; fu uno dei matematici più originali dei tempi moderni, ma disgraziatamente era di costituzione fisica debole e scomparve prima di aver raccolto i frutti della preziosa produzione della sua mente; se fosse nato un secolo più tardi, la scienza medica gli avrebbe probabilmente prolungato la vita di 20 o 30 anni e la matematica non attenderebbe oggi il suo successore."

A questo punto però sorge una domanda: queste geometrie non euclidee servono veramente a qualcosa o sono solo splendidi modelli matematici fini a se stessi?
Fin da piccoli siamo abituati alle nozioni di geometria euclidea, alle figure da essa rappresentate, alle loro caratteristiche.
Tali figure (cerchio, quadrato, triangolo, ecc.) e proprietà si presentano spessissimo nella realtà quotidiana.
Tuttavia, se andiamo a considerare il mondo da una prospettiva più alta, cioé spostandoci a prendere come riferimento l'intero nostro Universo, la geometria euclidea certamemente perderebbe gran parte del suo valore.
In tal contesto, infatti, intervengono appunto le geometrie non euclidee.
Basti ricordare Einstein e la Relatività Generale, con lo spazio-tempo che si curva.
Beh, per descrivere questi particolari spazi abbiamo bisogno di geometrie dove la somma degli angoli interni di un triangolo non sia necessariamente pari a quella di 2 angoli retti, abbiamo bisogno di geometrie dove per una retta e un punto esterno ad essa non passi una e una sola parallela; dobbiamo perciò ricondurci alle geometrie non euclidee.
Forse Einstein non avrebbe potuto nemmeno elaborare la sua Relatività Generale, se un gruppo di matematici dell'Ottocento e alcuni pionieri dei secoli precedenti, non avessero implementato, andando contro tutto e tutti, le suddette geometrie.
A tal proposito, riporto un'interessante descrizione presente nel libro L'equazione di Dio di Amir D. Aczel:

"Qual è la geometria generale dell'Universo? Sappiamo che localmente, vicino a una stella o a un altro oggetto di grande massa, lo spazio s'incurva: intorno all'oggetto acquista una curvatura sferica, come hanno dimostrato gli esperimenti sulle eclissi....La geometria è direttamente legata a certe equazioni matematiche....La geometria dell'Universo contribuisce a determinare il suo destino ultimo; i matematici ne distinguono 3 possibili varianti. La prima è quella piatta, o euclidea; in un universo euclideo la curvatura è per definizione nulla. La nozione di "curvatura" (per la quale si usa in genere la lettera k) nasce con Gauss; qui partiamo dall'ipotesi che l'Universo abbia dovunque una curvatura costante. Se l'Universo è piatto si dice che la sua curvatura è k = 0. Gli spazi di curvatura costante non nulla si dividono in 2 categorie: o la curvatura è positiva, nel qual caso diciamo che k = + 1, o è negativa, e allora scriviamo k = - 1. Uno spazio con curvatura k = + 1 è "chiuso": in 2 dimensioni è di questo tipo una superficie sferica. Se invece k = - 1 lo spazio è "aperto" e la geometria è iperbolica, come nei modelli di Gauss, Lobačevskij e Bolyai. In 2 dimensioni, ha curvatura negativa costante la superficie esterna di una pseudosfera...I cosmologi usano un simbolo speciale per il rapporto fra 2 densità, la densità di massa reale ρ dell'Universo in un istante dato e la densità critica. Questo rapporto fra densità reale e densità critica è detto Ω. La chiave della geometria dell'Universo sta proprio in Ω. Se supponiamo che non esista costante cosmologica, vale quanto segue: se Ω è uguale a 1 la densità reale è uguale a quella critica e l'Universo è piatto, quindi si espanderà per sempre ma la velocità di espansione continuerà a diminuire. Quando Ω è maggiore di 1 la densità di massa dell'Universo supera la densità critica, che rappresenta un punto d'equilibrio cosmico: in questo caso non solo l'espansione rallenta, ma poiché c'è più massa di quella indispensabile per un semplice rallentamento, verrà un giorno in cui l'universo smetterà di espandersi e comincerà a contrarsi fino all'inevitabile "grande schiacciata", che divorerà tutto. A quel punto forse potrà esserci una rinascita con una nuova grande esplosione, e in questo continuo succedersi di grandi esplosioni e grandi schiacciate ogni nuovo universo nascerà dalle ceneri del precedente. Nel caso di Ω minore di 1 la densità di massa dell'Universo è inferiore a quella critica: non c'è massa sufficiente a fermare l'espansione e produrre un collasso, e l'universo continuerà a espandersi per sempre; la sua geometria è iperbolica. Se invece la costante cosmologica non è nulla, l'universo può avere un destino diverso in tutti e 3 i casi; questo destino dipenderà dai valori di entrambi i parametri, Ω e la costante cosmologica λ."



Specifichiamo che la densità critica è:



dove H è la costante di Hubble e G è la costante di gravitazione universale.
Vorrei concludere la trattazione riportando una poesia (in inglese) su Euclide, intitolata Euclid Alone Has Looked on Beauty Bare (Solo Euclide ha contemplato la nuda bellezza) composta nel 1923 dalla poetessa Edna St. Vincent Millay:

Euclid alone has looked on Beauty bare.
Let all who prate of Beauty hold their peace,
And lay them prone upon the earth and cease
To ponder on themselves, the while they stare
At nothing, intricately drawn nowhere
In shapes of shifting lineage; let geese
Gabble and hiss, but heroes seek release
From dusty bondage into luminous air.

O blinding hour, O holy, terrible day,
When first the shaft into his vision shone
Of light anatomized! Euclid alone
Has looked on Beauty bare. Fortunate they
Who, though once only and then but far away,
Have heard her massive sandal set on stone.