Consonanza e dissonanza sono 2 parole molto significative in ambito musicale.
Come sottolineato più volte in questo blog, la musica non è una disciplina isolata, scollegata dalle altre: è bensì il frutto della mente umana che più di tutti riesce a collegare scienza ed arte, razionalità e irrazionalità.
Ecco perché non ci si deve stupire se rinveniamo, nella storia, degli scienziati musicisti, come William Herschel (l'astronomo che scoprì il pianeta Urano), o che comunque dedicarono parte della loro vita a ricerche rigorose relative alla musica.
Tra essi vi è anche il fisico tedesco Hermann von Helmholtz (1821-1894).
Parleremo fra poco della sua vita e delle sue ricerche in campo musicale, specialmente in merito alla dissonanza.
Prima di tutto, però, introduciamo tale argomento.
L'armonia è sempre stata alla base della musica e non solo.
Ad esempio, Keplero, nel libro Harmonices Mundi, datato 1619, esponeva un singolare pensiero.
Infatti, in tal opera, l'astronomo asseriva, pensate un po', che i pianeti intonano un mottetto polifonico.
Inoltre, a detta di Keplero, la loro estensione "vocale" cresce all'aumentare della distanza dal Sole: Mercurio rappresenta il soprano, la Terra e Venere il contralto, Marte il tenore, Giove e Saturno il basso!
In poche parole, il Sistema Solare rappresentava per Keplero una vera e propria "orchestra cosmica".
Ma questa non era un'idea così originale.
Infatti, una cosmologia musicale era già stata abbozzata da Tolomeo nell'opera Armonici, un testo di teoria musicale che portava avanti i fondamenti matematici della consonanza introdotti dalla scuola pitagorica.
Comunque, la parola greca harmonia non designa un termine prettamente musicale: significa infatti "andare bene insieme", sottolineando l'esistenza di una sorta di ordine numerico, dato che la radice è la medesima della parola "aritmetico".
Isidoro di Siviglia, teologo del VII secolo, nella sua opera Etimologie e origini, sotto il titolo Cosa può fare la musica, asseriva: "Si dice che l'Universo stesso sia stato assemblato con una certa armonia di suoni, e il cielo stesso ruoti sotto una musica armoniosa".
Inoltre, l'Universo musicale kepleriano era anche frutto delle influenze della sua epoca: quando Keplero elaborò la sua opera, nel frattempo, in Europa, la corrente filosofica del Neoplatonismo, la quale attruibuiva un carattere fondamentalmente geometrico all'Universo, aveva raggiunto un nuovo periodo di fioritura e forte considerazione.
La corrente neoplatonica si diffuse in particolar modo a Praga, alla corte del Sacro Romano Imperatore Rodolfo II, ove Keplero svolse le mansioni di consigliere dal 1600 al 1612.
C'è tuttavia da sottolineare un fatto di non poco conto: mentre la musica greca era monofonica, il mondo in cui Keplero trascorreva la sua esistenza aveva sposato la maestosa polifonia di Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525 o 1526 - 1594) e Claudio Monteverdi (1567-1643).
Ma che differenza sussiste precisamente tra monofonia e polifonia?
Beh, questa differenza è già evidenziata dalle radici delle parole stesse.
La monofonia è una semplice melodia senza alcun accompagnamento armonico.
Ciò significa che è una melodia in cui viene suonata una sola nota per volta, o, al massimo, duplicando l'ottava (cioè, ad esempio, suonando assieme un Do del pianoforte col Do successivo).
Anche un coro che canta all'unisono produce musica monofonica.
La polifonia (quella tipica della musica moderna) è invece uno stile compositivo in cui sussiste una fusione di 2 o più voci (strumentali e/o vocali) che non ripercorrono lo stesso motivo ma, invece, ognuna esegue, indipendentemente dall'altra (ma simultaneamente), una certa successione di note.
Ecco un ottimo video illustrante tale importante differenza:
Ritornando al modello cosmologico-musicale di Keplero, i suoi pianeti cantavano assieme, in stretta armonia.
Egli era fortemente convinto che il movimento dei pianeti prevedesse rapporti semplici, come quelli riscontrati negli intervalli musicali.
Keplero adorava il sistema basato sull'intonazione giusta di Gioseffo Zarlino, il quale assegnava piccoli rapporti numerici a intervalli musicali come la terza maggiore e minore (rispettivamente 5:4 e 6:5), che nel sistema di accordatura pitagorico risultavano decisamente più complessi.
Keplero, basandosi sui suoni ascoltati con le proprie orecchie, affermava che il principale argomento a sostegno degli intervalli giusti di Zarlino non era rappresentato dalla loro accuratezza, bensì dal fatto che suonavano meglio.
Per un maggiore approfondimento, vi rimando al magnifico articolo "La scala "naturale" da Tolomeo a Zarlino" di Paolo Alessandrini sul blog Mr. Palomar.
L'opera Harmonices Mundi fa notare quanto a fondo la teoria e la pratica polifonica fossero penetrate nella cultura di fine Rinascimento.
Tra l'altro, il libro illustra come una delle questioni più spinose che gli intellettuali dell'epoca stavano cercando di risolvere fosse: cosa è armonioso e cosa non lo è?
Keplero ha avuto certamente il merito di far capire che l'armonia non riguarda soltanto ciò che è afferente con la musica, ma anche il modo con cui è costituito il mondo.
Tuttavia, non risolse il più importante degli interrogativi: perché alcune combinazioni di note ci piacciono e altre no?
Già i Greci erano a conoscenza del fatto che l'armonia, in musica, riguarda la modalità in cui vengono messe assieme le note.
Quasi tutti concorderanno col fatto che ci sono alcune note che si accordano meglio fra loro e altre meno.
Le prime vengono dette consonanti, mente le seconde dissonanti.
In generale, la consonanza è gradevole da ascoltare, mentre la dissonanza produce suoni sgradevoli!
Ma tale affermazione non è da prendere in maniera troppo rigida.
Infatti, non è sempre vero che dietro la dissonanza si nasconda la brutta musica!
Anzi, per fare un esempio, anche dietro le geniali e a dir poco meravigliose composizioni di Chopin si nascondono numerose dissonanze.
Ecco a voi il preludio Op.28 n.2, scritto da Chopin alla fine del 1838:
La mano sinistra del pianista esegue un contrappunto (composizione di linee melodiche indipendenti, che si fondono assieme) a 2 voci, noto come "punto contro punto".
Vengono eseguiti effettivamente degli intervalli dissonanti (la cosiddetta nona maggiore e la settima diminuita), ma questi, nell'insieme della composizione, non sono avvertiti come dissonanti!
La melodia fiorisce inoltre sul movimento del contrappunto, andando a modificare progressivamente la scrittura in senso armonico.
Volete un altro esempio?
Ecco allora il preludio n.23, sempre di Chopin, che è probabilmente il primo brano della storia della musica a terminare con una dissonanza:
Le dissonanze son presenti anche nel delizioso e sublime Valzer Op.64 n.2:
Questi brani dimostrano che non si possono considerare intervalli dissonanti di note brutti, a prescindere dal contesto.
Provate a suonare su un pianoforte o una tastiera una quinta giusta (Do-Sol) e poi un tritono (Do-Fa ♯).
Vi accorgerete che il primo è armonioso mentre il secondo crea una specie di strepito!
Tuttavia, nell'Europa del X secolo, una quinta giusta era ritenuta generalmente non consonante, visto che solo l'ottava era considerata tale.
Nel momento in cui venne riconosciuta l'armonia alla base di una quinta giusta, allora anche la quarta venne ritenuta perfettamente consonante, cosa che si oppone alla visione attuale della musica.
Infatti, la quarta è stata definita da alcuni moderni teorici della musica consonanza mista, da altri consonanza variabile e da altri ancora consonanza debole.
Pensate che l'armoniosa terza maggiore (Do-Mi), nel XIV secolo, era ancora usata raramente e non venne classificata come consonante sino all'Alto Rinascimento.
E l'intervallo del tritono, quello citato in precedenza, che si suppone essere spaventosamente dissonante (nel Medioevo era persino chiamato diabolus in musica ed era stato bandito dalla musica sacra!), si rivela invece un'accoppiata estremamente piacevole ed armoniosa quando viene suonata nell'ambito del cosiddetto accordo di settima dominante (praticamente, aggiungete un Re basso e quella dissonanza sparirà).
Ma questo disprezzo del tritono derivava specialmente da ragioni teoriche, dato che esso non costituiva assolutamente il più sgradevole all'ascolto di tutti gli intervalli: esso rappresentava invece un grosso problema per il sistema pitagorico, perché il circolo delle quinte non si chiude con esso.
La cosa buffa è che il decisamente più sgradevole intervallo di seconda minore non sia mai stato definito diabolico!
Tutto ciò, però, non implica che quando troviamo una combinazione di note monotona o non molto gradevole sia solamente questione di convenzioni.
C'è sicuramente un aspetto puramente psicologico della dissonanza, a se stante dalle convenzioni musicali, ed è chiamato dissonanza sensoriale o tonale.
In pratica, si riferisce alla sensazione uditiva sgradevole e quasi metallica prodotta da 2 toni di altezza (ne abbiamo parlato qui) ravvicinata.
Se 2 toni puri (cioè delle singole frequenze) vengono suonati simultaneamente, ma queste frequenze sono minimamente diverse, ne consegue un'interferenza delle onde sonore.
Nello specifico, in un certo istante i segnali acustici si rafforzano l'un l'altro dando vita a un maggior volume; nell'istante successivo essi si elidono parzialmente, comportando una diminuzione del volume.
Ciò che ne deriva è un aumento e una riduzione periodici del volume dei 2 toni in sovrapposizione, un fenomeno che viene denominato battimento.
Chiariamolo meglio!
Innanzitutto diciamo che l'onda sonora più semplice è quella sinusoidale.
Un corpo che si muove descrivendo una sinusoide o una cosinusoide si dice si muova di moto armonico semplice.
Potete immaginare il moto armonico semplice come il movimento di una penna, attaccata ad una molla, che scrive (descrivendo una sinusoide) su un rotolo di carta in movimento, così come illustrato nella seguente immagine:
Dunque è intuitivo scrivere la generica legge oraria del moto armonico semplice come:
Andiamo con ordine.
A indica l'ampiezza dell'onda, cioè, detto in termini semplici, quanto la curva si alza (o si abbassa) sopra (sotto) l'asse delle ascisse:
Invece, ω rappresenta la cosiddetta pulsazione o frequenza angolare.
Essa è pari a:
dove T indica il periodo del moto, cioè l'intervallo di tempo costante che il corpo impiega per andare da una cresta della sinusoide alla successiva (il moto è dunque periodico).
La grandezza inversa del periodo è la famosa frequenza f, descritta pertanto dalla formula:
Essa si misura in hertz (Hz).
Ne consegue che la pulsazione ω può esser scritta anche come:
Una precisazione: stiamo considerando un piano cartesiano dove alle ascisse abbiamo il tempo t, mentre alle ordinate la posizione x(t).
Manca all'appello α, che designa il cosiddetto sfasamento o fase iniziale o costante di fase.
Cos'è?
Praticamente è una grandezza legata al valore dell'ascissa t = 0.
Infatti:
E' dunque l'angolo che ci precisa la posizione del corpo che si muove di moto armonico semplice all'istante iniziale t = 0, ovvero la posizione di partenza del moto.
Curiosità: se ci fate caso, la sinusoide non è altro che una cosinusoide sfasata di 90° (ossia π/2), come dimostra la seguente figura:
In pratica, disegnare una sinusoide a partire da π/2 è equivalente a disegnare una cosinusoide a partire da 0.
A seguito di questa breve precisazione, immaginiamo un punto P alla stregua di un orecchio oppure un apparecchio di ricezione, il quale "ascolta" 2 onde sonore piane armoniche (che pervengono in P dalla stessa direzione) di uguale ampiezza e pulsazioni (ω₁ e ω₂) diverse.
In particolare:
con
Le 2 onde sono ovviamente descritte rispettivamente dalle seguenti equazioni:
Abbiamo pertanto ammesso che lo sfasamento sia nullo.
Ora proviamo a sovrapporre le 2 onde, compiendo dunque una somma:
Sfruttiamo adesso le splendide formule di prostaferesi (su esse ho raccontato un simpatico aneddoto qui).
In particolare, utilizziamo la seguente formula:
La nostra espressione diviene quindi:
Ponendo adesso:
e
Otteniamo:
L'oscillazione nel punto P non è più armonica poiché, nella sovrapposizione di onde, l'ampiezza non è costante, ma a sua volta varia in modo armonico nel tempo, un fenomeno detto modulazione di ampiezza, osservabile in questa immagine:
Se le 2 pulsazioni di partenza ω₁ e ω₂ sono quasi identiche, allora la pulsazione indicata con ω è molto simile sia a ω₁ che a ω₂ (ne rappresenta la media aritmetica), mentre la pulsazione Ω risulta decisamente inferiore a ω.
Nell'intervallo delle frequenze udibili, l'orecchio umano percepisce dunque un suono di frequenza:
la cui intensità varia periodicamente nel tempo.
La legge che esprime la variazione dell'intensità I del suono è la seguente:
Il periodo della funzione cos² Ωt è esattamente la metà del periodo della funzione cos Ωt.
Ne deriva che, essendo il periodo l'inverso della frequenza, la corrispondente frequenza è doppia.
Ergo, l'orecchio percepisce una variazione dell'intensità con frequenza:
Tale frequenza è chiamata appunto frequenza di battimento ed è molto inferiore ad f, nel caso f₁ e f₂ siano appena differenti.
Facciamo un esempio: ipotizziamo che
mentre
Il nostro orecchio percepisce allora la frequenza
e pure la frequenza di battimento
In altre parole, esso avverte che l'intensità varia ben 4 volte al secondo (precisiamo che la frequenza di battimento non è quella di vibrazione del timpano).
Il limite fisiologico per l'orecchio umano è:
Oltre il suddetto valore le variazioni di intensità diventano troppo veloci da poter essere percepite distintamente.
In altri termini, quando la differenza di frequenza risulta maggiore di 20 Hz, l'orecchio non riesce più a seguire le celeri fluttuazioni di intensità e le percepisce come "asprezza", cioè come dissonanza sensoriale.
Ed ora 2 magnifici video sul fenomeno dei battimenti:
Ricapitolando, la dissonanza sensoriale avviene quando 2 toni presentano una differenza di una certa ampiezza critica.
Una conseguenza sorprendente di tale effetto è che la dissonanza dipende dalle frequenze "assolute" dei 2 toni.
In pratica, ciò significa che un intervallo consonante nel registro alto, ovvero nella sezione più alta della tastiera di un pianoforte, può diventare dissonante in un registro più basso!
Questo è equivalente ad affermare che non esistono intervalli totalmente dissonanti, ma tutto dipende, invece, da dove vengono suonati (una sorta di relatività)!
Entrando nei dettagli, all'interno della sezione centrale del pianoforte, gli intervalli di terza minore cadono generalmente al di fuori della fascia dell'asprezza, e non producono una dissonanza sensoriale.
Inoltre, sulle note alte, neppure una seconda minore determina asprezza, mentre, al contrario, su quelle basse, intervalli piuttosto ampi, tra cui perfino la quinta giusta (considerata, come abbiamo visto, molto armoniosa), possono diventare aspri e dissonanti in termini sensoriali!
Tale fatto spiega il carattere cupo e rauco degli accordi bassi suonati dal pianista con la mano sinistra, e ci fa anche comprendere perché nella musica occidentale si ritrovano spessissimo dei voicing (accordi costruiti in modo differente da quello classico) di ampiezza sempre maggiore man mano che ci si avvicina al registro basso.
In generale, un pianista esegue dunque i voicing con la mano sinistra abbracciando quasi un'ottava o anche più quando la nota più bassa è situata sull'ottava sotto il Do centrale, mentre può permettersi di suonare delle quarte o delle quinte se la suddetta nota è più alta del Mi sotto il Do centrale.
Nel frattempo, la mano destra va ad eseguire senza problemi accordi in cui si manifestano terze e addirittura seconde.
David Huron, professore all'Ohio State University, ha mostrato che le distanze medie tra le 2 note più basse degli accordi dei quartetti di Haydn e delle opere per strumenti a tastiera di Bach si incrementano progressivamente man mano che la nota inferiore diviene più bassa.
Ergo, questi grandi geni della Musica avevano compreso da soli che tutto ciò era da attuare per cercare di evitare la dissonanza sensoriale sul registro basso!
Dobbiamo però dire che la dissonanza sensoriale sembrerebbe non fornirci spiegazioni in merito al fatto che una particolare combinazione di note possa risultare consonante o dissonante, trascurando l'asprezza che si manifesta quando sono troppo vicine.
Tutti quanti gli intervalli situati oltre il punto critico di separazione delle altezze dovrebbero suonare altrettanto bene; tuttavia la realtà dei fatti non è proprio così.
La causa risiede nel fatto che i toni suonati dagli strumenti musicali sono complessi, sono cioè combinazioni di numerose armoniche.
Cosa diavolo sono le armoniche?
Prima abbiamo detto che l'onda sonora più semplice è quella sinusoidale.
Ora specifichiamo che i suoni che contengono una sola frequenza acustica sono praticamente impossibili da rinvenire in natura (basti pensare che nessun strumento tradizionale li produce).
Quando pizzicate la corda di una chitarra, fate risuonare con l'archetto la corda di un violino, premete un tasto del pianoforte, oppure soffiate all'interno di una tromba o di un sassofono, non mettete l'aria in vibrazione a un'unica frequenza.
La corda o lo strumento che risuona dà vita a un complesso mix di frequenze, che solitamente risultano essere tutte multipli interi di quella più bassa.
Per fare un esempio, una corda che vibra non genera solamente un'onda di lunghezza uguale alla corda stessa, ma pure onde lunghe la metà (e dunque, ricordando che frequenza e lunghezza d'onda sono inversamente proporzionali, con frequenza doppia), un terzo (di frequenza tripla), un quarto e così via.
La cosa importante è che nella lunghezza della corda rientri un numero intero di onde.
La frequenza più bassa viene chiamata fondamentale e, di norma, è sempre quella che si riesce ad udire con maggior chiarezza: la maggior parte dell'energia acustica del suono viene incanalata infatti in tale nota.
Le note più alte sono invece denominate armoniche.
Le armoniche rappresentano una particolare tipologia di ipertoni, cioè componenti di un suono complesso dotate di una frequenza superiore a quella fondamentale.
Una tipologia particolare perché, come abbiamo detto, sussiste la regola che, nelle armoniche, queste frequenze devono essere multipli interi della fondamentale.
Ecco un'immagine illustrante le armoniche:
Generalmente, uno strumento dà luogo a dozzine di armoniche, non tutte però facilmente individuabili, in quanto diventano man mano più deboli all'aumentare della loro frequenza.
Detto ciò, ritorniamo al nostro discorso sulla dissonanza.
Se i toni musicali eseguiti dagli strumenti sono complesse combinazioni di armoniche, allora ogni coppia di note suonata simultaneamente presenta svariate possibilità che 2 armoniche si scontrino e generino una dissonanza sensoriale, se le rispettive frequenze sono abbastanza prossime fra loro.
Ed ecco che entra finalmente in scena il fisico e fisiologo Hermann von Helmholtz.
Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz, nato il 31 agosto 1821 a Potsdam, era figlio (il maggiore di 4 fratelli) di Ferdinand Helmholtz (un docente del Ginnasio di Potsdam) e Caroline Penne.
Da ragazzo, Helmholtz era molto interessato alle scienze naturali, ma il padre lo esortò a studiare medicina a Berlino, in quanto erano previsti supporti di natura economica per gli studenti.
Studiò, in particolare, all'Istituto medico-chirurgico "Friedrich-Wilhelm", dove si laureò nel 1842 discutendo una tesi, in latino, sul tema Struttura del sistema nervoso degli invertebrati.
Dato che questo corso di studi implicava un successivo obbligo al servizio militare per ben 8 anni, dal 1843 Helmholtz servì prima come chirurgo presso lo squadrone degli Ussari, in seguito come medico presso il reggimento della Guardia di stanza a Potsdam.
In questi anni svolse peraltro fondamentali ricerche sul principio di conservazione dell'energia, pubblicando nel 1847, a 26 anni, il magistrale saggio Über die Erhaltung der Kraft ("Sulla conservazione della forza").
La suddetta opera rappresentava il suo debutto nel campo della fisica.
Il saggio era stato in un primo momento rifiutato dall'editore dei famosi Annalen der Physik, ovvero Johann Christian Poggendorff, in quanto reputato troppo lungo, troppo teorico e privo di un sufficiente contenuto sperimentale.
Poggendorff, tuttavia, nel rispondere al Professor Magnus che gli aveva inviato il manoscritto, propose di farne una pubblicazione a sé stante; Helmholtz diede il consenso.
Maxwell spese per il saggio di Helmholtz le seguenti parole di elogio:
"Per apprezzare il pieno valore scientifico del piccolo saggio di Helmholtz, su questo argomento (la conservazione dell'energia) dovremmo chiedere a coloro ai quali dobbiamo le maggiori scoperte in termodinamica e in altri rami della fisica moderna quante volte essi lo abbiano riletto, e quante volte, durante le loro ricerche, essi abbiano sentito gli importanti enunciati di Helmholtz agire sulle loro menti, come un'irresistibile forza propulsiva."
A seguito dell'interessamento di Alexander von Humboldt, nel 1848 Helmholtz venne anticipatamente congedado dal servizio militare, ed incominciò a insegnare anatomia all'accademia d'arte di Berlino.
L'anno seguente ottenne una cattedra come professore di fisiologia e patologia a Kaliningrad (a quell'epoca nota come Königsberg), ove inventò (nel 1851) l'oftalmoscopio, misurò la velocità di propagazione degli impulsi nervosi ed incominciò a interessarsi all'acustica.
Sempre nel 1849 avvenne un altro evento importante nella vita del fisico e fisiologo: il 26 agosto prese in moglie Olga von Velten e, dopo la morte di costei nel 1859, si risposò il 16 maggio 1861 con Anna von Mohl.
In totale, Helmoltz ebbe 5 figli (3 maschi e 2 femmine).
Compiendo un piccolo balzo indietro nel tempo, diciamo che nel 1855 ci fu il suo trasferimento a Bonn (dove nacque Beethoven, nel 1770) come professore di fisiologia e di anatomia.
Nel frattempo, si era recato in Inghilterra, stringendo rapporti di amicizia con una cerchia di scienziati inglesi, fra cui William Thomson (Lord Kelvin).
Nel 1858, già famoso, si trasferì a Heidelberg, in cui svolse significative ricerche sulla visione e l'udito e scrisse 2 ampi trattati sulla percezione del suono e sull'ottica fisiologica.
Nei suoi studi di carattere fisiologico e biologico, Helmholtz difendeva strenuamente l'idea secondo cui la vita doveva essere riconducibile a fenomeni fisici e chimici, posizione che scatenò polemiche, ma che, allo stesso tempo, ispirò diversi biologi.
Nel 1870 divenne membro dell'Accademia delle scienze Prussiana, mentre l'anno successivo fu nominato professore di fisica a Berlino, con un stipendio pari a 4000 talleri all'anno, ovvero ben 4 volte superiore a quello di un normale professore di università.
Qui si dedicò allo studio dell'idrodinamica da un punto di vista matematico e conseguì importanti risultati nella "teoria dei vortici", per la cui descrizione vi rimando allo splendido articolo "Vortici e vertigini" di Marco Fulvio Barozzi sul blog Popinga.
Sempre a Berlino, Helmholtz cominciò pure un'analisi critica delle teorie allora esistenti sui fenomeni elettrici, confrontando quella di Maxwell con quelle proposte da Wilhelm Eduard Weber, Franz Ernst Neumann e altri.
In tale ricerca, Helmholtz desiderava dimostrare la compatibilità delle teorie con il principio di conservazione dell'energia, nonché scoprire se e dove esse facessero previsioni fra loro differenti e, infine, osservare in che modo queste previsioni potessero essere controllate sperimentalmente.
Un programma di ricerca quindi molto interessante, che ispirò profondamente Heinrich Rudolf Hertz (sì, lo stesso dell'unità di misura della frequenza), il quale riuscì persino a portarlo a compimento.
Una simpatica curiosità: Helmholtz era veramente un pessimo insegnante!
Le sue lezioni non erano preparate con sufficiente cura ed egli non era neanche in grado di improvvisare.
Ergo, all'Università di Berlino, il principale centro della fisica tedesca, i 2 professori di maggior prestigio tenevano delle lezioni a dir poco mediocri: Kirchhoff (quello delle 2 leggi inerenti ai circuiti elettrici) faceva addormentare gli studenti, Helmholtz era invece quasi incomprensibile nelle sue spiegazioni!
Nel 1887 Helmoltz diventò direttore della "Reichsanstalt", un'istituzione progettata (grazie al supporto in termini economici, pari a 50.000 marchi, dell'industriale Werner von Siemens) con funzioni sia di istituto di ricerca (pura e applicata), sia di ufficio campioni.
Man mano che gli anni volavano via, gli interessi di Helmoltz si avvicinavano sempre più alla fisica teorica: cercò, ad esempio, di fornire un fondamento puramente meccanico della termodinamica.
Per il suo settantesimo compleanno venne organizzata in suo onore una maestosa cerimonia, durante la quale egli tenne una conferenza autobiografica, non solo eloquente ma anche molto sincera e schietta.
Nella suddetta occasione, Helmoltz si trovò a pronunciare il seguente emblematico discorso:
"Non voglio dire che nella prima metà della mia vita, quando dovevo ancora lavorare per la mia carriera, non abbiano agito su di me anche motivi etici più elevati che la sete del sapere e il senso del dovere come impiegato dello stato. Però era più difficile essere sicuri della loro presenza finché anche motivi egoistici mi spingevano al lavoro. Lo stesso succederà alla maggioranza dei ricercatori. Però più tardi, una volta assicuratasi una posizione, quelli che non hanno una spinta interna alla scienza possono smettere completamente di lavorare, mentre per quelli che seguitano a lavorare si rivela importante una concezione più elevata del loro rapporto con l'umanità."
In quegli stessi anni, Helmholtz aveva raggiunto in Germania uno status così incredibile che Mihajlo Pupin (allora studente americano a Berlino, che diventerà un noto elettrotecnico) asserì addirittura che "dopo Bismarck e il vecchio Imperatore, Helmholtz era a quell'epoca l'uomo più illustre dell'Impero germanico".
Hermann von Helmholtz si spense l'8 settembre 1894 a causa di un ictus cerebrale.
Come abbiamo visto, durante la sua vita Helmholtz ebbe diverse interessi, tra cui l'acustica.
L'acustica gli offriva molti spunti interdisciplinari, tanto che Helmholtz combinò un'approfondita conoscenza del funzionamento dell'orecchio con quella della matematica delle vibrazioni per capire in che modo percepiamo i suoni.
Il suo libro del 1863, La percezione dei suoni come base fisiologica della teoria musicale, rappresenta una delle prime spiegazioni autenticamente scientifiche nell'ambito della cognizione della musica.
Helmholtz era a conoscenza che la questione della consonanza era antica e profonda.
Nonostante le vicissitudini delle convenzioni musicali, nel XIX secolo era largamente accettata l'idea che gli intervalli maggiormente belli e armoniosi fossero quelli preferiti dai pitagorici, ossia quelli che presentavano semplici rapporti numerici tra le frequenze, come 1:2 (ottava), 2:3 (quinta), 3:4 (quarta).
Un ampio numero di importanti scienziati, fra cui spiccano Galileo, Bacone e Mersenne, si era scervellato per cercare di rinvenire il motivo per cui tali intervalli suonassero "bene", ma l'impresa fu vana.
Galileo espresse le seguenti parole a riguardo, nel 1638:
"Udiamo alcune coppie [di note] con grande piacere...altre meno; e...altre risultano assai sgradevoli all'orecchio."
Una delle maggiori difficoltà consisteva nel fatto che le nozioni semplicistiche fondate sui precetti pitagorici erano davvero difficili da conciliare con la prassi musicale.
Il nostro orecchio, infatti, è generalmente molto più tollerante verso alcuni accordi rispetto al pensiero di stampo pitagorico: riteniamo consonanti degli intervalli equabilmente temperati anche se i rapporti tra le loro frequenze differiscono, a volte in maniera rilevante, dai valori pitagorici.
Lo stesso Helmholtz aveva capito che alcuni intervalli suonano più o meno consonanti a seconda degli strumenti per mezzo dei quali vengono eseguiti: la terza maggiore Re-Fa♯ eseguita per clarinetto e oboe risulta più gradevole quando è il clarinetto a emettere la nota più bassa.
Helmholtz aveva compreso il fenomeno dell'asprezza dovuto al battimento di 2 note di frequenza simile.
Egli ha calcolato l'asprezza totale di tutte le combinazioni di armoniche (fino alle prime 5) quando le frequenze fondamentali di 2 toni complessi risultano stabilmente separate tra l'unisono (cioè il rapporto di 1:1) e l'intervallo di ottava (rapporto di 1:2).
Questo crea una curva di asprezza, o dissonanza sensoriale, che presenta flessioni a vari intervalli, ciascuna delle quali può essere assegnata a uno degli intervalli della scala cromatica.
In pratica, più un "avvallamento" consonante è ripido, meno l'intervallo è tollerante alle stonature, come si può osservare nell'immagine che segue:
La curva che vedete nella figura è proprio la curva di dissonanza di Helmholtz, la quale è stata più di recente aggiornata sfruttando i dati raccolti nel 1965 dai ricercatori olandesi di psicoacustica Reinier Plomp e Willem Johannes Maria (Pim) Levelt (qui l'articolo dei 2 scienziati), i quali hanno chiesto ad alcuni soggetti di classificare il grado di dissonanza sussistente fra 2 toni puri ravvicinati relativamente a un'ampia gamma di frequenze medie.
Osservando il grafico qui sopra è difficile non credere che Helmholtz non fosse davvero vicino a una scoperta molto significativa.
Infatti, il fatto che quasi tutti gli avvallamenti combacino in maniera abbastanza precisa con un intervallo musicale diatonico o cromatico (per la loro definizione, guardate qui), e che alcuni di quelli maggiormente profondi coincidano con gli intervalli convenzionalmente considerati consonanti, cioè quelli di ottava, quinta, quarta e terza, non può essere solo una mera coincidenza.
Peraltro, la profondità di svariati avvallamenti "consonanti" non cambia di molto.
Come potete facilmente notare, quelli di ottava e di quinta sono particolarmente profondi e, pertanto, l'idea che entrambi siano intervalli "preferiti" fisiologicamente trova riscontro sul piano prettamente teorico e su quello empirico.
Invece, non sussiste una differenza molto netta fra la terza maggiore, la quarta giusta e la sesta maggiore.
In effetti, nella curva aggiornata quasi tutti gli intervalli compresi tra la seconda maggiore e la settima maggiore si trovano all'interno di una stretta fascia di dissonanza, escludendo ovviamente l'armoniosa quinta giusta.
Fatto ancor più stupefacente è che il presunto intervallo sgradevole di tritono risulta meno dissonante di una terza maggiore o minore.
La maggiore dissonanza in assoluto si nota in prossimità dell'unisono (dunque possiamo immaginare all'interno di questo range la seconda minore Do-Do♯), che produce un suono particolarmente sgradevole.
Tuttavia, tutto ciò varia a seconda del registro considerato (Helmholtz ha eseguito i suoi calcoli assumendo come punto di riferimento il Do centrale), ma non si dovrebbe in alcun caso pensare che i suddetti intervalli siano musicalmente inutili o per forza brutti all'ascolto.
Al contrario, essi possono essere usati per dar vita a interessanti effetti timbrici o coloristici (abbiamo già constatato ciò con Chopin).
Per fornire un ulteriore esempio, nella musica di Mozart oppure di Haydn troviamo spesso la cosiddetta nota di abbellimento o "acciaccatura", che comporta una certa sovrapposizione sensoriale fra 2 note fra loro "dissonanti".
Vorrei concludere il post nella maniera migliore possibile, riportando l'adagio-allegro dal quartetto n.19, K 465 in Do maggiore di Mozart, definito "Quartetto delle dissonanze" e dedicato da Mozart nientemeno che a Joseph Haydn.
La composizione del medesimo venne terminata il 14 gennaio 1785 e fu eseguito per la prima volta in casa di Mozart assieme ad altri 2 quartetti del ciclo, con uno spettatore d'eccezione: Haydn stesso.
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Fonti principali:
- L'istinto musicale di Philip Ball
- Personaggi e scoperte della fisica classica di Emilio Segrè
giovedì 21 febbraio 2013
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Come sempre un articolo stracolmo di storia, dati ed informazioni che tu hai saputo snocciolare in modo esaustivo ed al contempo piacevole. Complimenti davvero.
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