mercoledì 20 luglio 2011

LA PILA: UN'IMPORTANTE APPLICAZIONE A CAVALLO TRA CHIMICA E FISICA

Le pile o celle elettrogalvaniche sono sicuramente oggetti con cui abbiamo a che fare quotidianamente.
Esse, infatti, fanno funzionare telecomandi, telefoni cellulari, calcolatrici tascabili, mouse di alcuni pc, controller di videogiochi, ecc.
Potremmo affermare che esse si trovano a cavallo tra la chimica e la fisica, in quanto entrambe sono necessarie per descrivere il funzionamento di tali oggetti.
Più precisamente, esse sono studiate da quella branca denominata elettrochimica, che si occupa delle trasformazioni di energia chimica in energia elettrica e viceversa.
Tuttavia, prima di procedere nella trattazione di questi fondamentali apparecchi, risulta necessario richiamare alcune nozioni di fisica inerenti l'elettromagnetismo.
Innanzitutto, l'energia elettrica è l'energia trasportata dalla corrente elettrica, e come qualsiasi energia, si misura in joule.
La corrente elettrica è un moto ordinato di cariche elettriche (elettroni) in conduttori.
Per indicare quanto è "grande" la corrente elettrica dobbiamo introdurre una grandezza, l'intensità di corrente elettrica, data dalla formula:

i = ΔQ/Δt

Tale equazione ci dice quindi che l'intensità di corrente (i) è pari alla quantità di carica (ΔQ) che attraversa la sezione di un conduttore in un certo intervallo di tempo (Δt).
Tuttavia, richiamando la 1° legge di Ohm, l'intensità di corrente può essere anche definita come:

i = ΔV/R

La 1° legge di Ohm afferma dunque che nei conduttori ohmici (ampia classe di conduttori comprendente i metalli e le soluzioni di acidi, basi e sali per la quale la curva caratteristica nel diagramma corrente-tensione è data da una retta passante per l'origine) l'intensità di corrente elettrica (i) è direttamente proporzionale alla differenza di potenziale o tensione (ΔV) e inversamente proporzionale alla resistenza elettrica.
L'unità di misura dell'intensità di corrente elettrica è l'ampere (A).
Ma cosa sono la differenza di potenziale (d.d.p.) e la resistenza elettrica?
La d.d.p. rappresenta il "dislivello elettrico" tra corpi che è alla base della corrente elettrica, cioè il moto delle cariche tra conduttori a diverso potenziale.
Infatti, le cariche positive "scendono" lungo la d.d.p., ossia passano spontaneamente da punti a potenziale più alto verso punti a potenziale minore.
Viceversa, le cariche negative "risalgono" la d.d.p., cioé passano spontaneamente da punti a potenziale più basso verso punti a potenziale più alto.
Considerati 2 punti A e B a diverso potenziale, la definizione matematica rigorosa della differenza di potenziale è questa:



dove:

- q = carica puntiforme presa in considerazione, fissa in un punto P;
- ε₀ = costante dielettrica del vuoto;
- ra = distanza del punto A da P;
- rb = distanza del punto B da P.

La resistenza è invece definita dalle 2° legge di Ohm:



dove:

- ρ = resistività: essa dipende dal particolare materiale con cui è fatto il filo e dalla sua temperatura.
- l = lunghezza del filo conduttore;
- A = area trasversale.

Ma per avere nella realtà la corrente elettrica c'è bisogno di un apparecchio detto "generatore di corrente elettrica" costituito di 2 zone separate, chiamate poli.
Il primo è il polo negativo o catodo, dove si accumulano gli elettroni di conduzione, mentre l'altro polo, essendo privato di elettroni, acquisisce carica positiva e viene denominato anodo o polo positivo.
In accordo con ciò che abbiamo descritto prima, nel momento in cui si collegano tra loro i 2 poli tramite un filo conduttore esterno, gli elettroni, spinti dalla d.d.p. sussistente fra i poli, escono dal polo negativo per dirigersi lentamente verso quello positivo.
Man mano che gli elettroni pervengono all'anodo, il generatore provvede a trasportarli nuovamente sul catodo, passando al suo interno, così da mantenere costante la d.d.p. fra i 2 poli.
In tal modo si chiude il circuito percorso dagli elettroni.
Sussiste un'analogia tra la definizione di corrente elettrica che riscontriamo in fisica e quella di reazione di ossido-riduzione (redox) spontanea che troviamo in chimica.
Infatti, una reazione redox spontanea consiste nel passaggio di elettroni da un elemento riducente a uno ossidante, durante il quale si libera energia.
Causa del passaggio di elettroni è la differenza di potere riducente fra gli elementi.
Presa tale definizione, se agli elementi riducenti/ossidanti sostituiamo i poli e alla differenza di potere riducente sostituiamo la d.d.p. otteniamo praticamente la definizione di corrente elettrica!
Ma cosa sono esattamente le reazioni redox?
Esse rappresentano reazioni chimiche in cui avvengono contemporaneamente l'ossidazione di un elemento e la riduzione di un altro.
Cosa significano ossidazione e riduzione?
Un elemento si ossida quando cede elettroni e di conseguenza aumenta il suo numero di ossidazione.
Viceversa, un elemento si riduce quando acquista elettroni e pertanto diminuisce il suo numero di ossidazione.
Dunque, le reazioni redox comportano il fatto che, durante lo scambio di elettroni tra 2 elementi, un elemento si riduce a spese dell'altro che si ossida!
Ritornando adesso alla pila, essa non è altro che un generatore che trasforma l'energia chimica in energia elettrica e basa il suo funzionamento su una reazione redox spontanea.
La prima pila si deve ad Alessandro Volta, il quale, nel 1799, si rese conto che, mettendo a contatto tra loro 2 metalli differenti, si stabiliva fra essi una differenza di potenziale e che l'effetto aumentava in presenza di una soluzione acquosa di un sale o di un acido.
Ma chi era Alessandro Volta?
Volta era nato nel 1745 a Como, in una ricca famiglia di stretta osservanza cattolica.
Suo padre, che aveva ben 3 fratelli sacerdoti, era stato per 11 anni novizio nei Gesuiti, prima di sposare una nobildonna, anch'essa estremamente religiosa.
Dei loro 9 figli, 5 scelsero la vita religiosa.
Alessandro nutrì sempre un profondo rispetto nei confronti del fratello arcidiacono, ma dopo essere stato educato da Gesuiti, preferì la vita secolare.
Egli convisse per numerosi anni con una cantante, e poi si sposò con un'altra donna solo all'età di circa 50 anni!
Sua moglie viene descritta come una donna bruttina, molto nobile, ricca e saggia.
Volta era stato educato soprattutto allo studio di materie umanistiche come il latino, le lingue e la letteratura: era infatti capace di comporre sonetti in francese e italiano, oppure odi in latino, ma senza alcun talento poetico!
La sua inclinazione scientifica sembra che sia nata e cresciuta in modo spontaneo.
Infatti, ad un certo punto della sua vita, il giovane Volta iniziò a compiere esperimenti nel campo dell'elettricità, lesse vari libri inerenti tale argomento e cominciò a nutrire una profonda passione nei confronti di tali studi.
Un prete amico, il canonico G.C. Gattoni, lo aiutò, fornendogli apparecchi e spazi per lavorare a casa sua.
La passione per l'elettricità condusse Volta, già a 16 anni, a scrivere lettere a diversi esperti in tal settore come l'abate Nollet a Parigi e Giambattista Beccaria a Torino.
Beccaria a quel tempo era uno studioso di elettricità affermato e internazionalmente noto.
Egli suggerì a Volta di dedicarsi quasi esclusivamente allo studio sperimentale e tralasciare sostanzialmente lo studio teorico.
Infatti, le opinioni teoriche del giovane risultavano assai meno importanti dei suoi esperimenti.
Con il passare degli anni, Volta approfondì la sua conoscenza relativa all'elettricità statica, giungendo così a raggiungere un livello paritario rispetto a quello dei migliori studiosi del suo tempo, e iniziò a costruire strumenti originali.
Un perfetto esempio di strumento voltiano è l'elettroforo.
Una piastra metallica conduttrice, poggiata su una "focaccia" isolante, innanzitutto viene portata "a terra", cioè a potenziale zero, dopodiché viene isolata e sollevata dalla focaccia.
La piastra diviene in tal modo carica a potenziale elevato e l'operazione può essere ripetuta indefinitamente.
L'invenzione risultava estremamente ingegnosa e venne successivamente sviluppata in un'intera serie di macchine elettrostatiche.
Volta, inoltre, si era reso conto che aveva bisogno di misurare quantitativamente le grandezzze elettriche.
A tal fine inventò un elettrometro, il precursore di tutti gli elettrometri assoluti elettrostatici, che era in grado di misurare le d.d.p. in modo riproducibile.
Egli mise a punto una scala per il suo apparecchio e, dalla descrizione che egli stesso ne fece, possiamo capire che la sua unità di potenziale era pari a 13350 dei nostri volt (unità di misura che ha simbolo V e prende il nome appunto da Volta!).
L'invenzione dell'elettroforo consentì a Volta di ottenere un incarico di professore di fisica nelle scuole di Como (1775).
Intanto, il suo nome cominciò a diventare famoso anche fuori dall'Italia, tanto che la Società di Fisica di Zurigo lo nominò suo membro.
All'età di 32 anni fece un viaggio in Svizzera durante il quale incontrò Voltaire e parecchi fisici svizzeri.
Al suo ritorno in Italia, fu nominato professore di fisica all'Università di Pavia, che, a quel tempo, rappresentava la più importante università della Lombardia.
Poco dopo aver compiuto i 45 anni, Volta lesse i lavori di un altro importante studioso di elettricità: si trattava di Luigi Galvani.
I lavori di quest'ultimo influenzarono profondamente Volta.
Bisogna dire che però si generò una disputa fra i 2 studiosi.
Nel 1791 Galvani, nell'opera De viribus electricitatis in motu musculari commentarius, pubblicò i risultati degli esperimenti che per una decina di anni aveva ripetutamente compiuto sulle rane scorticate.
Posti nelle vicinanze di una macchina elettrostatica, i corpi delle rane subivano contrazioni muscolari, se toccati con una lama metallica, negli stessi istanti in cui dalla macchina spuntavano fuori scintille.
Le carcasse delle rane si contraevano allo stesso modo se appesi a una ringhiera, in concomitanza con scariche elettriche.
Galvani aveva verificato, infine, che le contrazioni potevano essere provocate stabilendo un contatto metallico fra i muscoli delle zampe e i nervi lombari, e che risultavano più violente se il contatto avveniva per mezzo di un arco bimetallico.
Quando Volta venne a conoscenza della pubblicazione di Galvani, ripeté l'esecuzione degli esperimenti constatando con un certo stupore la veridicità dei fenomeni descritti.
Sulla loro interpretazione nacque, come detto, un'accesa disputa, che coinvolse anche altri studiosi.
La domanda cruciale che scatenò tale contesa è: il corpo della rana si comporta come un elettrometro così sensibile da rispondere persino alle piccole differenze di potenziale prodotte tra le sue estremità dalla scarica di una macchina elettrostatica, da un fulmine o da un arco bimetallico, oppure è esso stesso una sorgente di "fluido elettrico"?
Galvani propendeva per la seconda ipotesi, mentre Volta sosteneva la prima.
Il fatto che le contrazioni più intense si osservassero quando la rana scorticata veniva toccata con un arco bimetallico aveva convinto Volta che a generare la tensione, in questo caso, fosse la giunzione tra i 2 metalli, così come negli altri casi erano il fulmine e la macchina elettrostatica.
La disputa si concluse quando egli riuscì, come visto in precedenza, a costruire un elettrometro metallico sensibile alle piccole tensioni.
Poté in tal modo dimostrare che, in effetti, le estremità delle giunzioni fra metalli hanno potenziali elettrici differenti (effetto Volta) e fu allora chiaro che i muscoli della rana non sono un generatore elettrico, bensì un rilevatore.
Dopo l'invenzione della pila, Volta scomparve praticamente dalla scena e lo sfruttamento della sua scoperta fu lasciato ad altri.
Probabilmente era troppo vecchio per competere con forze più giovani e fresche, ed è anche possibile che fosse psicologicamente bloccato dalla stessa grandezza dei suoi precedenti risultati.
Passò gli ultimi 8 anni della sua vita quasi in isolamento nella sua villa di Camnago nei pressi di Como dove morì il 5 marzo 1827, all'età di 82 anni.
Dopo questo excursus biografico sulla vita di Alessandro Volta, ritorniamo al nocciolo della questione, ossia la trattazione della pila e delle reazioni redox, e constatiamo che una reazione di ossidoriduzione spontanea è anche esotermica (cioè libera energia) mettendo in una provetta una soluzione acquosa di solfato di rame e un po' di zinco in polvere.
La provetta, inizialmente di colore azzurro a causa della presenza degli ioni Cu2+, in pochi minuti si decolora (segno dimostrante il fatto che gli ioni del rame sono spariti) e, al posto della polvere grigio-biancastra di zinco, riscontriamo un precipitato bruno-rossastro di rame.
Che cosa è successo?
Lo zinco è passato in soluzione ossidandosi da Zn a Zn2+ e a sua volta ha ridotto il rame da ione Cu2+ a rame metallico Cu.
Nella provetta, a seguito della reazione, c'è una soluzione incolore di solfato di zinco e un precipitato rosso bruno di rame.
Toccando la provetta, essa risulta calda!
Pertanto, la seguente reazione redox che si determina

Zn + Cu2+ → Zn2+ + Cu

appare spontanea ed esotermica!
Ciò ci fa comprendere che il passaggio degli elettroni dallo zinco agli ioni Cu2+ del rame, situati nella soluzione, libera energia e, siccome le 2 semireazioni avvengono all'interno della medesima soluzione, allora quest'ultima si riscalda!
Ma come è possibile trasformare in energia elettrica l'energia liberata in una reazione redox?
Consideriamo la conservazione dell'energia: per far sì che l'energia chimica si muti in energia elettrica, bisogna pertanto fare attenzione che essa non si trasformi in energia termica.
La soluzione si riscalda in quanto offre una considerevole resistenza al passaggio degli elettroni.
Dunque, è necessario evitare che gli elettroni scambiati attraversino la soluzione.
Come si può fare a conseguire tale obiettivo?
Ad esempio, si può far passare gli elettroni da un elemento all'altro mediante un conduttore metallico che garantistica una minima resistenza al loro passaggio ed eviti la dispersione di calore.
Per fare ciò, sussistono 2 condizioni fondamentali:
  • le 2 semireazioni devono aver luogo il più lontano possibile l'una dall'altra, per esempio, in 2 recipienti diversi, pur collegati fra loro;
  • i 2 metalli devono essere collegati tramite un conduttore esterno.
In questa maniera, gli elettroni liberati dal metallo che si ossida vanno ugualmente a ridurre gli ioni presenti nell'altro recipiente, tuttavia passando attraverso il conduttore esterno che offre, come detto, meno resistenza e minimizza quindi la dispersione di energia sotto forma di calore!
Inoltre, percorrendo il filo, i suddetti elettroni, vanno a determinare una corrente elettrica continua, che può essere sfruttata.
Ecco dunque che c'è la mitica pila, utile proprio ai fini di un'operazione di questo tipo!
Nella pila, i 2 metalli utilizzati per la reazione redox vanno a costituire i 2 poli (anodo e catodo).
Abbiamo visto come le reazioni di ossidoriduzione, argomento fondamentale della chimica, siano quindi alla base di un processo utile per produrre energia elettrica e per far funzionare svariati strumenti elettronici.
Adesso vogliamo valutare la differenza di potenziale sussistente fra i 2 elettrodi (= i poli) della pila, detta anche forza elettromotrice (f.e.m.).
Essa dipende da 2 fattori chiave:

1) temperatura;
2) concentrazione della soluzione ionica.

Esiste perciò una particolare equazione che tenendo conto delle suddette variabili, ci permette il calcolo della f.e.m: l'equazione di Nernst:



dove:

- E° = f.e.m. della pila in condizioni standard = E°catodo - E°anodo;
- R = costante universale dei gas = 8,31 J/K mol;
- T = temperatura assoluta espressa in K;
- n = numero di elettroni coinvolti nella reazione;
- F = carica di 1 mole di elettroni ≅ 96500 C/mol;
- [Ox] = concentrazione molare del sistema ossidante (polo +) elevata al proprio coefficiente stechiometrico;
- [Red] = concentrazione molare del sistema riducente (polo -) elevata al proprio coefficiente stechiometrico
Un'ultima importante cosa da dire riguardo alle pile è che esse, dopo un po' di tempo, si scaricano e vanno gettate via.
Oggi, tuttavia, per ovviare a tale problema esistono anche le batterie ricaribili, come quelle dei cellulari, in cui, fornendo energia elettrica dall'esterno, avvengono reazioni inverse, ripristinando la pila.
Un ulteriore esempio di batteria ricaricabile è dato da quella usata per le automobili, chiamata accumulatore o batteria piombo-acido, inventata nel 1859 dal fisico francese Gaston Planté.
L'accumulatore è una pila reversibile, un dispositivo costituito da più celle collegate in serie, che possiede una duplice funzione:

1) si carica se è sottoposta a un'opportuna d.d.p., trasformando l'energia elettrica in energia chimica;
2) all'occorenza si scarica, trasformando l'energia chimica precedentemente accumulata in energia elettrica, comportandosi alla stregua di una pila.

Ogni cella fornisce la d.d.p. di 2 V.
Ne consegue che, un comune accumulatore per auto, essendo costituito di 6 celle collegate in serie, è in grado di fornire una d.d.p. pari a 12 V.
Ogni cella è formata da:
  • una piastra di piombo ricoperta di piombo spugnoso, che agisce da elettrodo negativo;
  • una piastra ricoperta di ossido di piombo PbO2 che rappresenta l'elettrodo positivo.
Le suddette piastre sono separate l'una dall'altra da un setto e immerse in una soluzione acquosa di acido solforico al 20%.
Nella fase di scarica avvengono le seguenti reazioni:

anodo: Pb (s) + SO42− (aq) → 2e+ PbSO4 (s)
catodo: PbO2 (s) + 4H
+ (aq) + SO42− (aq) + 2e → PbSO4 (s) + 2H2O (I)

Nella reazione, pertanto, gli elettrodi si ricoprono di solfato di piombo a spese dell'acido solforico e si forma acqua, cioè la soluzione dell'elettrolita si diluisce.
Per un approfondimento sugli elettroliti e sull'elettrolisi vi rimando all'articolo "Faraday e l'elettrolisi".
Ritornando alla trattazione, nella fase di carica avvengono le reazioni inverse e agli elettrodi si riformano rispettivamente piombo metallico e diossido di piombo.
La soluzione, inoltre, si concentra nuovamente a causa della presenza degli ioni SO42−.
Dunque, si ha la seguente reazione complessiva:

Pb (s) + PbO2 (s) + 4H+ (aq) + 2SO42− (aq) ⇄ 2PbSO4 (s) + 2H2O (I)
In conclusione, un video inerente i concetti chiave dell'elettrostatica e della pila:

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