mercoledì 22 febbraio 2012

LA DIFFERENZA TRA LAVORO E FATICA

Qualche lettore, osservando il titolo, si starà forse già chiedendo: ma lavoro e fatica non sono la stessa cosa?
In effetti, il sostantivo "fatica", nella lingua italiana, può esser considerato come sinonimo di "lavoro".
Ma cambiamo prospettiva e addentriamoci nel mondo della Fisica.
Qui lavoro e fatica sono ancora la stessa cosa?
La risposta è no!
Perché?
Genero un po' di suspance, visto che la risposta precisa ed esauriente ve la darò alla fine.
Infatti, in un primo momento, andremo ad analizzare il concetto di lavoro in fisica e, all'interno della trattazione, si troverà la risposta, anche se non esplicitamente (dovrete cercare infatti di intuirla), alla fantomatica domanda che ci siamo posti.
Il lavoro è definito in fisica come:




ove:
  • F = forza;
  • d = spostamento;
  • cos α = angolo fra la direzione della forza e quella dello spostamento.
La formula riportata sopra ci fa capire che il lavoro non è altro che il prodotto scalare tra la forza e lo spostamento.
Quali sono le conseguenze di ciò?
Innanzitutto, per non avere un lavoro nullo è necessario che la forza sia diversa da 0 e che la sua direzione non sia perpendicolare (cos 90° = 0) a quella dello spostamento.
Se tutte queste condizioni sono soddisfatte, allora il lavoro può essere di 2 tipologie:

1) positivo o motore: la forza è diretta nello stesso verso dello spostamento;
2) negativo o resistente: la forza è diretta nel verso opposto allo spostamento.

L'unità di misura del lavoro nel Sistema internazionale delle unità di misure è il Joule (J).
Un joule equivale a: 1 newton X 1 metro (N·m).
Approfondiamo un po' meglio la questione sul lavoro.
Consideriamo una particella/punto materiale (corpo unidimensionale) P di massa m che si muove in un sistema di riferimento inerziale, sottoposto a una certa forza F.
Consideriamo adesso 2 vettori posizione (quelli che ci forniscono appunto la posizione della particella ad un certo istante di tempo):

1) r(t): vettore posizione del punto all'istante t;
2) r(t+ dt): vettore posizione all'istante t + dt, cioè a seguito di un intervallo di tempo aggiuntivo piccolissimo dt.

In questo intervallo di tempo elementare dt la particella ha quindi subito uno spostamento elementare ds che possiamo scrivere come:



Ecco l'immagine illustrativa di tutto ciò:


















Sicché possiamo definire il cosiddetto lavoro elementare dW come il prodotto scalare tra la forza F e lo spostamento elementare ds:



Supponiamo adesso che il nostro corpo unidimensionale si porti, percorrendo la traiettoria s, dal punto A al punto B.
Se immaginiamo di suddividere la traiettoria s in tanti piccoli tratti elementari, possiamo allora assumere, in maniera approssimativa, il lavoro compiuto dalla forza lungo l'intero percorso come la sommatoria dei lavori elementari dW inerenti a ciascun tratto elementare ds:




Per passare al calcolo esatto bisogna ovviamente effettuare il limite di tale sommatoria per ds tendente a 0, cioè definire il lavoro come l'integrale di linea della forma differenziale F · ds tra i punti A e B lungo il percorso s:





Questa è sicuramente una definizione maggiormente rigorosa di lavoro!
Volete sapere chi ha coniato il termine "lavoro"?
La sua introduzione in fisica, nel 1826, si deve a Gaspard-Gustave de Coriolis (1792-1843).
Riporto la breve ma interessante descrizione relativa alla vita di Coriolis di Amir Aczel nel libro Pendulum:

"Coriolis nacque a Parigi negli anni della rivoluzione; suo padre Jean-Batpiste-Eléazar Coriolis aveva militato nel reggimento Bourbonnais, che combatté nella campagna americana del 1780, e quando tornò in Francia fu promosso capitano e passò al servizio diretto di Luigi XVI, per cui si trovò in pericolo dopo il crollo della monarchia (per sfuggire ai continui disordini il re aveva abbandonato la capitale il 21 giugno 1791, ma era stato catturato a Varennes e ricondotto a Parigi, dove finì ghigliottinato). Gaspard-Gustave Coriolis nacque nel giugno 1792, proprio mentre la monarchia veniva abolita. Il ragazzo crebbe a Nancy, dove la famiglia si era trasferita dopo la rivoluzione; nel 1808 sostenne l'esame di ammissione all'École Polytechnique e risultò secondo fra tutti gli ammessi di quell'anno; dopo la laurea entrò nell'École des Ponts et Chaussées (Scuola di Ponti e Strade) di Parigi. Tuttavia, in seguito alla morte del padre, Coriolis dovette far fronte alle necessità della famiglia e, dato che la salute malferma non gli lasciava molte alternative, optò per un posto di assistente di matematica all'École Polytechnique. Per quel lavoro era stato raccomandato da Cauchy, e quando il celebre matematico si rifiutò di giurare fedeltà al nuovo re Luigi Filippo, salito al trono dopo la "rivoluzione di luglio" del 1830, e abbandonò Parigi, l'École Polytechnique offrì il posto rimasto vacante a Coriolis. Questi, però, declinò l'offerta, perché voleva limitare il peso dell'insegnamento. Nel 1836 fu nominato segretario dell'École des Ponts et Chausseées e ammesso alla sezione di meccanica dell'Académie des Sciences; ma nella primavera del 1843 le sue condizioni di salute, già compromesse, peggiorarono ulteriormente, e pochi mesi dopo morì. Coriolis condusse ricerche nel campo della meccanica e dell'ingegneria; studiò l'attrito, l'idraulica e il rendimento dei motori, e introdusse in fisica termini quali "lavoro" ed "energia cinetica". Nel 1835 pubblicò un articolo intitolato Sulle equazioni del moto relativo dei sistemi di corpi  in cui descriveva quella che oggi porta il nome di "forza di Coriolis", un curioso fenomeno fisico presente nei sistemi in rotazione." 

A seguito di questo excursus storico, andiamo a considerare il lavoro nel caso in cui sulla particella P agiscano molteplici forze Fi.
In tale situazione, il lavoro totale W effettuato dalle forze non è altro che la sommatoria dei lavori Wi compiuti in modo separato dalle varie forze:





Siccome la somma di integrali corrisponde all'integrale della somma, e giacché tutte le forze Fi subiscono il medesimo spostamento elementare ds, in quanto ciascuna forza è applicata allo stesso punto P, ne consegue che:





dove ovviamente F indica la risultante di tutte le forze.
Ora sfruttiamo il 2° principio della dinamica per scrivere la risultante delle forze come:




e moltiplichiamo i membri dell'equazione per lo spostamento elementare ds:




Tenendo conto che:






andando a sostituire nel secondo membro dell'equazione precedente otteniamo:




Siccome la quantità v · dv designa il differenziale di 1/2 v², ne consegue che la formula precedente può essere riscritta come:




Integrando la suddetta equazione fra 2 punti qualsiasi A e B della traiettoria si ottiene:





Ciò sta a significare che, dopo tutti questi passaggi, abbiamo scoperto che il lavoro è pari alla differenza dell'energia cinetica (Ec = 1/2 mv²) che il punto possiede nella posizione B (arrivo) e quella che possiede nella posizione A (partenza).
Non a caso, la definizione riportata è denominata teorema dell'energia cinetica o teorema delle forze vive.
Direi che è venuto il momento di sciogliere il riserbo!
Qual è la differenza sussistente tra lavoro e fatica?
La risposta si gioca su una componente fondamentale del lavoro: lo spostamento.
Infatti, come abbiamo visto in maniera approfondita, per esserci un lavoro, ci deve essere una forza (o una risultante di forze) e uno spostamento.
Quando, per esempio, solleviamo un oggetto da terra, stiamo compiendo un lavoro perché applichiamo una forza sull'oggetto e sussiste un certo spostamento di questo dal basso verso l'alto.
La fatica è invece uno sforzo, ma che non comporta alcuno spostamento!
Se teniamo il braccio teso con in mano un certo oggetto, facciamo fatica (soprattutto se pesante!) ma non compiamo un lavoro, in quanto non stiamo effettuando spostamenti di alcun genere.
In realtà, alla fine, questa fatica che avvertiamo è sempre il risultato di un lavoro.
Infatti, i muscoli del nostro corpo, quando sollevano qualcosa, non rimangono mai perfettamente nello stato originario: ci sono sempre microscopici movimenti di questi.
Ergo, essi comporteranno sempre dei minuscoli spostamenti: dunque avremo tanti piccolissimi lavori, che andranno a determinare quella che avvertiamo come fatica!
Un'altra situazione in cui facciamo fatica ma "non lavoro" si ha, ad esempio, quando trasportiamo una valigia lungo un percorso orizzontale, con il braccio ben teso.
In tal caso, infatti, pur essendoci uno spostamento della valigia, le componenti della forza e dello spostamento sono ortogonali tra loro e, per i motivi spiegati in precedenza, il lavoro risulta nullo!









Dopo tutto questo lavoro e questa fatica, direi di rilassarci con un po' di video musicali:









domenica 19 febbraio 2012

L'ORIGINE DELLA GOMMA

Come faremmo a guidare un'automobile se non ci fossero le gomme a sostenerla? Come potrebbe un aereo atterrare se non ci fossero le gomme? Come potremmo usufruire di oggetti banali ma utili come gli elastici se non ci fosse la gomma?
Le sopracitate domande ci fanno capire che la gomma (non quella da masticare, ovvero la chewing-gum!) riveste un ruolo importantissimo nella nostra vita quotidiana.
Incominciamo dunque la nostra trattazione sulla gomma partendo da interessanti informazioni storiche provenienti dallo splendido libro I bottoni di Napoleone di Penny Le Couteur e Jay Burreson:

"Una qualche forma di gomma era nota da moltissimo tempo nella maggior parte dell'America centrale e meridionale. Il primo uso della gomma, a fini sia decorativi sia pratici, è spesso attribuito a tribù indie del bacino amazzonico. Palle di gomma, trovate in un sito archeologico nei pressi di Veracruz, in Messico, risalgono al periodo compreso fra il 1600 e il 1200 a.C. Nel suo secondo viaggio in America, nel 1495, Cristoforo Colombo vide indigeni sull'isola di Hispaniola giocare con palle pesanti, prodotte con una gomma vegetale, che facevano rimbalzi sorprendentemente alti. Colombo le giudicò migliori di quelle riempite d'aria in Spagna, riferendosi presumibilmente a vesciche di animali gonfiate, usate dagli spagnoli in giochi con la palla....Un francese, di nome Charles-Marie de la Condamine - variamente caratterizzato come matematico, geografo e astronomo, oltre che viveur e avventuriero -, fu inviato dall'Accademia francese delle scienze a misurare un meridiano in Perù, per stabilire se la Terra fosse o no effettivamente appiattita ai poli. Dopo avere completato il suo lavoro per l'Accademia, La Condamine colse l'opportunità di esplorare le foreste sudamericane, tornando a Parigi nel 1735 con varie palle fatte della gomma coagulata dell'albero del caucciù, l'albero che piange. Egli aveva osservato gli indios Omegus dell'Ecuador raccogliere il viscoso latice bianco del caucciù e poi riscaldarlo su un fuoco fumoso e modellarlo in una varietà di forme per farne contenitori, palle, cappelli e scarpe." 

Da queste prime informazioni possiamo subito riscontrare una caratteristica fondamentale della gomma: l'elasticità.
L'elasticità è la capacità di un materiale di cambiare forma, se sottoposto a un qualche tipo di forza, e di ritornare alla forma originaria al venir meno della causa scatenante.
L'elastico, ad esempio, lo possiamo allungare sfruttando le nostre dita, ma quando non imprimiamo più alcuna forza, esso ritornerà allo stato di partenza.
Il fatto di essere elastica rendeva la gomma, come abbiamo visto, ideale per progettare palle da gioco, che in tal modo potevano compiere rimbalzi elevati.
Ricordiamo infatti che, in fisica, esistono 2 tipologie principali di urto, quello elastico e quello anelastico: nel primo si conserva l'energia cinetica, mentre nel secondo no.
Quando una palla di gomma finisce a terra, l'urto è elastico; quindi l'energia cinetica si conserva e il pallone può sollevarsi dal terreno e continuare a rimbalzare.
I Maya e gli Aztechi praticavano una tipologia particolare di gioco con un pallone di gomma: il tlachtli.
Esso era una via di mezzo fra il calcio e il basket moderni: ai contendenti non era concesso di toccare la palla con le mani, ma solamente con anche, ginocchia e gomiti.
Per vincere la partita dovevano fare "canestro" in un buco scavato in una grande pietra fissata ad una parete.
Riuscire a far centro nella pietra era così complicato che il vincitore della partita (colui che riusciva a segnare) veniva considerato alla stregua di una semi-divinità e riceveva in consegna prigionieri di guerra per effettuare sacrifici umani! 

















Ora andiamo a scoprire la chimica alla base della gomma.
Iniziamo dicendo che la gomma naturale (o caucciù) è un polimero della molecola isoprene (C5H8).
Cosa sono i polimeri?
I polimeri sono grandi molecole organiche, aventi elavata massa molecolare, ottenute combinando fra loro molecole più piccole, dette monomeri, che ne vanno a costituire le unità fondamentali.
I polimeri si possono suddividere in 2 categorie:

1) omopolimeri: sono costituiti da monomeri tutti uguali;
2) copolimeri: i monomeri sono di 2 tipi diversi.

A loro volta, i copolimeri possono essere:

1) regolari: i 2 monomeri differenti si alternano regolarmente nella sequenza;
2) irregolari: i 2 monomeri si susseguono in maniera casuale.

Gli indigeni, come abbiamo riscontrato in precedenza, ricavarono la gomma incidendo la corteccia di una pianta, chiamata haevea brasiliensis, che ne rilascia una sospensione acquosa biancastra, il lattice, il quale, coagulando, acquista rilevanti proprietà elastiche.
Nel 1800, attraverso la distillazione del lattice, si ottenne l'isoprene.
L'isoprene, avente solo 5 atomi di carbonio, rappresenta il più piccolo monomero tra tutti quelli che costituiscono un qualsiasi polimero naturale.
Ciò fa della gomma il polimero naturale più semplice in assoluto!
La formula di struttura della molecola di isoprene, detto anche 2-metil-1,3-butadiene, è:













I primi esperimenti chimici sulla struttura della gomma furono compiuti da Michael Faraday (per maggiori informazioni su questo grande scienziato inglese vi rimando all'articolo "Faraday e l'elettrolisi").
Egli, nel 1826, comprese che la formula chimica della gomma dovesse essere un multiplo di C5H8.
Ma Faraday non fu l'unico ad interessarsi alla gomma.
Nel 1823 il chimico Charles Macintosh utilizzò nafta alla stregua di un solvente per trasformare la gomma in un rivestimento flessibile per tessuti.
I soprabiti impermeabili confezionati con tessuti ottenuti mediante il suddetto processo divennero noti come macintosh.
Addirittura, ancora oggi in Gran Bretagna gli impermeabili vengono chiamati così, oppure semplicemente con il diminutivo mac.
La scoperta di Macintosh diede la spinta a sfruttare la gomma pure per quanto concerne motori, tubi flessibili, stivali, ecc.
Un utilizzo più semplice della gomma era già stato rinvenuto nel 1770 dal chimico Joseph Priestley, il quale si era accorto che un pezzetto di caucciù poteva cancellare lettere e segni tracciati con una matita in modo più efficace rispetto alla mollica di pane inumidita, in uso a quel tempo.
Gli conferì allora l'appellativo rubber ("gomma per cancellare", da to rub che significa "sfregare", "strofinare").
Poi, nel 1860, Charles Greville Williams, riscaldando l'isoprene, ottenne una sostanza con proprietà molto simili a quelle della gomma naturale.
Ci si accorse quindi che, chimicamente, la gomma non è altro che un poli-isoprene.
Di tale polimero esistono 2 stereoisomeri:

1) forma cis-
2) forma trans-

Prima di osservare un po' più nel dettaglio queste forme, spieghiamo cosa sono gli stereoisomeri.
Innanzitutto, gli isomeri sono 2 o più composti diversi, aventi la stessa formula bruta ma differente formula di struttura.
Si dicono stereoisomeri quei particolari isomeri nei quali gli atomi componenti sono legati fra loro nello stesso modo, ma differiscono per la loro disposizione spaziale.
Sussistono 2 tipologie di stereoisomeria:

1) isomeria geometrica (isomeria cis-trans) o configurazionale;
2) isomeria ottica o enantiomeria.

Quella che ci interessa in tal sede è l'isomeria geometrica.
Essa si riscontra quando nella molecola sussistono impedimenti alla libera rotazione di gruppi atomici in essa presenti.
Esempi di essa si riscontrano sia in molecole contenenti doppi legami C = C, sia in quelle aventi struttura ciclica.
Giacché esistono molecole reali aventi proprietà fisico-chimiche diverse, che però rispondono entrambe alla medesima formula di struttura, la loro configurazione spaziale deve essere necessariamente diversa: essi costituiscono perciò una coppia di isomeri geometrici:
  • cis-: in cui i 2 atomi considerati risultano posti dalla stessa parte rispetto al piano ideale in cui è collocato il doppio legame;
  • trans-: in cui i 2 atomi risultano situati da parti opposte rispetto allo stesso piano.  
Nel caso dell'isoprene, gli atomi coinvolti sono quelli di idrogeno (H).
Nella configurazione cis- si trovano sul medesimo piano, cioè si possono collegare attraverso una retta orizzontale, mentre in quella trans-, si trovano in parti opposte, ovvero si possono collegare attraverso una linea diagonale.
Abbiamo detto prima che, pur essendo questa differenza tra cis- e trans- quasi insignificante dal punto di vista strutturale, essa comporta una notevole differenza sul piano delle caratteristiche fisico-chimiche.
La forma cis- del poli-isoprene (in cui i gruppi metilici (CH3) si trovano dalla stessa parte rispetto al piano determinato dai doppi legami) è la gomma naturale o caucciù, di cui abbiamo constatato l'elevata elasticità.
La cosa sorprendente è che la forma trans-, ossia la guttaperca e la balata, risulta, al contrario, dura e poco elastica.
La guttaperca, costituita per l'80% dal polimero trans dell'isoprene, si ricava dal latice di vari membri della famiglia delle sapotacee, e in particolare dall'albero del Palaquium, originario della penisola malese.
La balata, composta dal lattice simile della Mimusops globosa, nativa del Panama e delle parti settentrionali del Sudamerica, contiene l'identico polimero trans.
Le particolari proprietà della guttaperca e della balata sono di fondamentale importanza nel mondo del golf.
La palla da golf originaria era di legno (olmo o faggio).
Agli inizi del Settecento, tuttavia, gli scozzesi avevano realizzato la feathery, una palla di pelle, ricoperta di piume d'oca, in grado sì di percorrere una distanza doppia rispetto a una di legno, ma molto fragile e 10 volte più costosa di una di legno.
Sicché, nel 1848, fu introdotta la gutty.
Costituita da guttaperca bollita in acqua, plasmata a mano (o in uno stampo di metallo) in forma di una sfera e poi fatta indurire, essa divenne rapidamente popolare.
Invece, nelle moderne palle da golf vengono utilizzati numerosi materiali, tra cui molto spesso compare anche la gomma nella sua conformazione trans (soprattutto la balata).  
Adesso un'ultima curiosità inerente alla gomma.
Nel 1839, l'inventore americano Charles Goodyear trovò un modo singolare di usare lo zolfo.
Stava cercando un metodo per ottimizzare le proprietà della gomma naturale, la quale tende a diventare molla e appiccicosa in presenza di elevate temperature, rigida e friabile al freddo.
Tale problema stava così ossessionando Goodyear che più di una volta finì in prigione, in quanto non era in grado di restituire ai suoi creditori il denaro che aveva chiesto in prestito per continuare le sue ricerche.
Un giorno accadde qualcosa di incredibile!
Goodyear stava cercando di miscelare la gomma con lo zolfo per vedere quale sarebbe stato il risultato.
Ad un certo punto, egli rovesciò un po' della mistura su una stufa calda: era nata la cosiddetta gomma vulcanizzata, che prende il nome da Vulcano, dio romano del fuoco.
Ergo, si scoprì che gli atomi di zolfo determinano dei legami con le lunghe catene molecolari caratterizzanti la gomma, rendendola meno sensibile agli sbalzi di temperatura.
Le nostre moderne automobili viaggiano proprio su pneumatici costituiti da gomma vulcanizzata!
In conclusione, un bel video concernente l'isoprene e la gomma:

sabato 4 febbraio 2012

INTEGRALI DEFINITI E DERIVATE PARZIALI: STORIA, PROPRIETÀ E APPLICAZIONI IN FISICA

Tempo fa avevo scritto un articolo inerente al calcolo differenziale e integrale, dal titolo "Derivate e integrali indefiniti: storia, proprietà e applicazioni in fisica"; ora vorrei proseguire la trattazione introducendo gli importanti concetti di integrale definito e derivata parziale.
Iniziamo dagli integrali.
Ricordiamo intanto cos'è un integrale indefinito, in modo da introdurre agevolmente il suo "cugino" definito!
L'integrale indefinito è quel processo che, partendo dalla derivata di una funzione, ci permette di ritornare alla funzione di partenza, o meglio all'insieme di funzioni di partenza, detto insieme delle primitive.
Un semplice esempio:






Traducendo in parole: abbiamo x² rappresentante una derivata; integrando ottieniamo x³/3 + c, ovvero la famiglia delle primitive.
Vi ricordate perché si scrive il risultato con l'aggiunta di c?
Se non lo rimembrate, il motivo sta nel fatto che la derivata (nel nostro esempio x²) non proviene da un'unica funzione di partenza, ma appunto da un insieme infinito di funzioni (le primitive).
Il termine c indica infatti una costante e, come risulta noto, la derivata di una costante è semplicemente 0.
Prima di passare agli integrali definiti, approfondiamo un po' di più quelli indefiniti, introducendo 2 utili tecniche di risoluzione dei suddetti: l'integrazione per parti e l'integrazione per sostituzione.
La prima tecnica ci permette di risolvere integrali come questo:





Tale integrale non si risolve immediatamente, alla stregua del precedente: abbiamo bisogno di integrarlo per parti.
Il processo di integrazione per parti deriva da una regola propria delle derivate: la cosiddetta regola di Liebniz per la derivata del prodotto di 2 funzioni.
Questa regola ci dice che la derivata del prodotto di 2 funzioni si calcola in tal maniera:



Ovviamente è più facile capirla mediante degli esempi.
Come primo esempio consideriamo la funzione f(x) = xsin x.
Ricordiamo innanzitutto che:

  • D(x) = 1;
  • D(sinx) = cos x.
Applichiamo allora la regola di Leibniz:




Altro esempio: consideriamo la funzione f(x) = 3xcos x.
Ricordiamo che:

  • D(3x) = 3;
  • D(cos x) = -sin x.
Dunque:





A questo punto riprendiamo la regola di Leibniz generica:



e integriamola ottenendo:




Notiamo che al primo membro troviamo l'integrale di una derivata: ciò è equivalente alla primitiva f(x)g(x).
Pertanto:




Adesso manipoliamo l'espressione:




Quella appena scritta è l'espressione dell'integrazione per parti: essa ci consente quindi di calcolare l'integrale del prodotto di 2 funzioni, una derivata e una primitiva.
Sicché ritorniamo all'integrale che avevamo lasciato in sospeso:





Per calcolarlo possiamo appunto sfruttare l'integrazione per parti.
Osserviamo che:

  • f'(x) = e^x;
  • f(x) = e^x;
  • g(x) = x;
  • g'(x) = 1
Tenuto presente ciò, possiamo procedere con l'integrazione per parti:






Un altro esempio:





Prima di procedere per parti, possiamo portare il 2 fuori dall'integrale, in quanto costante:





Riscontriamo che:

  • f'(x) = sin x;
  • f(x) = -cos x;
  • g(x) = x;
  • g'(x) = 1.
Procediamo:





Svolgendo i calcoli






Ora scopriamo brevemente l'integrazione per sostituzione.
Partiamo da un esempio:





Integrare per sostituzione vuol dire, in termini semplici, sostituire un'espressione con un'altra più congeniale.
Nel suddetto caso poniamo 1 + x² = t.
Da tale espressione ricaviamo poi la x:




Con una regola che illustreremo adesso, calcoliamo la derivata della radice quadrata di t -1.
Come procediamo?
Siccome la sopracitata funzione è composta, utilizziamo la cosiddetta regola della catena.
In accordo con tale regola, calcoliamo innanzitutto la derivata di ciò che c'è dentro la radice, ossia il suo argomento.
Scriviamo:




Dopodiché, andiamo a considerare la radice quadrata:






La derivata complessiva non sarà altro che il prodotto tra A' e B':




Vi sarete resi conto che, tramite la regola della catena, non abbiamo fatto altro che spezzare la derivazione di una funzione composta in 2 derivazioni più semplici.
Prima di procedere nell'integrazione per sostituzione, evidenziamo che il termine dx che compare alla fine di ogni integrale indefinito si chiama differenziale e rappresenta quella cosa che ci segnala chiaramente rispetto a quale parametro dobbiamo integrare la funzione.
Nell'esempio dato, andremo a sostituire dx con dt, visto che abbiamo effettuato un cambio di variabile!
Dopo queste premesse, procediamo quindi con l'integrazione per sostituzione:




Semplificando otteniamo:





Il risultato è quindi:






Questo però è il risultato per quanto concerne t.
Per tornare ad x, basta aver presente che t = 1 + x² e dunque abbiamo:





Come abbiamo fatto?
Ricapitoliamo:

1) abbiamo sostituito un'espressione (1 + x²) con un'altra (t);
2) abbiamo ricavato da questa uguaglianza la x;
3) abbiamo calcolato la derivata di ciò che equivale a x, cioé radice quadrata di t-1;
4) abbiamo inserito questi nuovi elementi nell'integrale, accompagnati dal nuovo differenziale dt;
5) abbiamo calcolato l'integrale con le regole note;
6) una volta ottenuto il risultato per la t, abbiamo sostituito per riottenerlo con la x.

Esprimendo il tutto in una formulazione generale: sia f(x) una funzione continua e g(x) una funzione derivabile con derivata continua.
Allora:





Quella appena riportata è la formulazione rigorosa dell'integrazione per sostituzione.
Direi che il nostro approfondimento sugli integrali indefiniti può concludersi qui!
Passiamo (finalmente) agli integrali definiti.
Una domanda spontanea potrebbe essere: perché sono chiamati "definiti"?
Si può rispondere molto semplicemente: poiché, a differenza di quelli indefiniti, gli integrali definiti, in generale, ci conducono ad un numero puro, non ad un insieme di primitive.
Infatti, ci permettono, ad esempio, di calcolare l'area sottesa a una data curva.
Sembrerà strano, ma il concetto di integrale definito possiede radici più antiche rispetto al "cugino" indefinito.
A conferma di ciò, già Eudosso di Cnido (408-355 a.C.) ed Archimede di Siracusa (287-212 a.C.) avevano implementato e utilizzato un metodo, detto di esaustione, simile al processo di integrazione definita, che consiste nel calcolare l'area di una figura piana attraverso la costruzione di una successione di poligoni che approssimano sempre più la suddetta figura.
Interessanti informazioni circa il metodo di esaustione e i suoi protagonisti si possono riscontrare in Storia del Calcolo di Carl Benjamin Boyer:

"Alcune fonti rivelano che [Platone] propose a Eudosso parecchi problemi di stereometria che si rivelarono estremamente significativi in direzione del calcolo. A tal proposito, le dimostrazioni fornite da Eudosso delle proposizioni (affermate ma non dimostrate da Democrito) sui volumi di piramidi e coni, lo condussero alla messa a punto del suo famoso metodo di esaustione....Eudosso dovette ricorrere a una procedura che era già stata elaborata da Antifonte il sofista e, successivamente, da Brisone. Costoro avevano inscritto in un cerchio un poligono regolare e, con successivi raddoppi del numero dei lati, ritenevano di pervenire a un poligono coincidente con il cerchio e di determinare, così, l'area ricercata. Non conosciamo le parole esatte (gli scritti) di Antifonte e di Brisone. Il metodo di Antifonte è stato descritto come equivalente sia a quello di Eudosso, sia alla nostra moderna idea del cerchio come limite del poligono inscritto (sebbene espresso con una diversa terminologia). Ma tutto ciò non sembra corretto. Infatti, se Antifonte avesse considerato il processo di bisezione attraverso una successione infinita di passaggi, non avrebbe adottato un modo di pensare compatibile con quello di Eudosso e di Euclide. D'altra parte, non aveva certamente la nostra concezione di limite perché non intese il suddetto processo di bisezione come continuato indefinitamente, ma solo come realizzato fino al grado di approssimazione desiderato. Inoltre, la nostra concezione di limite è numerica, mentre le teorie di Antifonte e di Eudosso sono meramente geometriche. La suggestiva ipotesi di Antifonte fu comunque adottata da Brisone che sembra non si sia limitato a inscrivere un poligono in un cerchio, ma abbia anche circoscritto un altro poligono allo stesso cerchio, sicché la circonferenza sarebbe stata determinata, come il risultato di una prolungata bisezione, dalla progressiva approssimazione dei poligoni inscritti e circoscritti. Anche in questo caso non abbiamo elementi sufficienti per stabilire con certezza quali fossero le effettive tesi avanzate. Si è ipotizzato che contenessero concetti in qualche misura rapportabili alle sezioni di Dedekind o alla teoria del continuo di Cantor, ma in realtà non vi sono sufficienti garanzie per avvalorare una tale interpretazione. Comunque, tali concezioni furono poi sviluppate da Eudosso con argomentazioni rigorose....La procedura di Eudosso divenne nota come metodo di esaustione. Il principio su cui questo metodo è basato viene definito lemma o postulato di Archimede, anche se lo stesso matematico siracusano lo attribuì a Eudosso e non è neanche improbabile che sia stato formulato ancora prima da Ippocrate di Chio. L'assioma afferma che, date 2 grandezze diverse (non nulle, naturalmente, perché lo 0 per i greci non era né un numero né una grandezza), "se dalla maggiore si sottrae una grandezza più grande della sua metà e, da ciò che risulta, una grandezza ancora maggiore della sua metà e se questo processo viene ripetuto infinite volte, ci sarà una grandezza minore della più piccola grandezza che si possa pensare". Questa definizione (in cui, ovviamente, un qualunque numero razionale può esser sostituito in luogo di 1/2) escluse l'infinitesimo da tutte le dimostrazioni della geometria greca, sebbene tale nozione si trovasse occasionalmente in alcune elaborazioni come strumento euristico. Il fatto che, continuando la procedura indicata nell'assioma di Archimede, si possa ottenere una grandezza piccola a piacere, portò a chiamare il procedimento di Eudosso (ma molto più tardi) con il termine di "metodo di esaustione". Il termine "esaustione" non fu utilizzato fino al XVII secolo, quando alcuni matematici, in modo un po' ambiguo e acritico, lo introdussero sia in riferimento all'antica procedura greca, sia ai loro più moderni metodi che conducevano direttamente al calcolo e che hanno veramente "esautorato" le grandezze."   

Come abbiamo appena riscontrato dalla splendida trattazione di Boyer, il metodo di esaustione può essere considerato solamente un'approssimazione delle moderne tecniche relative al calcolo dell'area.
Il tutto dipende soprattutto dalla mancanza, nella matematica greca, del concetto di limite, ossia la nozione basilare dell'analisi matematica, da cui discendono derivate e integrali.
Come anticipato in precedenza, l'integrale definito ci consente di calcolare l'area sottesa ad una curva.
Osservate attentamente la seguente immagine:


















Possiamo constatare che l'area sottesa a tale funzione può essere approssimata abbastanza bene dalla somma dei rettangolini rappresentati.
Se incrementassimo il numero n di rettangolini (ovviamente ciascuno di essi si restringerebbe maggiormente) avremmo un'approssimazione dell'area ancora più precisa.
La nostra misura più precisa in assoluto, l'integrale definito, è allora il limite per n tendente all'infinito della sommatoria degli n rettangolini nell'intervallo [a,b].
Possiamo indicarlo così:






Esso si legge: "integrale definito tra a e b di f(x) in dx".
Come già detto, l'integrale definito di una funzione restituisce come risultato un numero puro.
La questione è: come facciamo a calcolare l'integrale definito di una certa funzione?
Il primo suggerimento è: tenere presente tutte le regole concernenti l'integrale indefinito.
Infatti, quando ci troviamo di fronte ad un integrale definito da calcolare, la prima cosa da fare è calcolarlo come se fosse un "semplice" integrale indefinito.
Consideriamo un esempio banale:






Se lo considerassimo alla stregua di un integrale indefinito, trascurando pertanto quei numeretti (2 e 1) agli estremi del simbolo ∫ (introdotto per la prima volta nel 1675 da Leibniz, sostituendolo all'abbreviazione omn), il risultato sarebbe:





Quei numeretti avranno un loro scopo no? O sono stati inseriti dai matematici solo per farci confondere le idee?
L'opzione corretta è ovviamente la prima: essi ci servono per calcolare l'integrale definito.
Essi rappresentano gli estremi dell'intervallo entro il quale andiamo a considerare l'area sottesa ad una data curva (in tal caso f(x) = x² + 3).
Come dobbiamo procedere quindi?
È semplicissimo: dobbiamo sostituire quei valori (2 e 1) alla x dell'espressione ottenuta mediante l'integrazione indefinita e poi dobbiamo sottrarre i suddetti valori.
È più facile a farsi che a dirsi!
Facciamolo allora:






Svolgendo questi calcoli elementari otteniamo il risultato: 16/3.
Adesso un esempio più complicato, ove è necessario sfruttare pure l'integrazione per parti:






Calcoliamolo innanzitutto alla stregua di un integrale indefinito, effettuando l'integrazione per parti.
Osserviamo che:
  • f'(x) = e^x;
  • f(x) = e^x;
  • g(x) = x³;
  • g'(x) = 3x².
Procediamo:





Purtroppo ci troviamo nuovamente di fronte ad un'espressione non calcolabile immediatamente.
Per tali ragioni, integriamo per parti l'integrale il cui argomento è x²e^x:




Ci troviamo di nuovo di fronte all'integrale che abbiamo calcolato agli inizi dell'articolo:





A questo punto sostituiamo all'indietro:







Svolgendo i calcoli:




Passiamo all'integrale definito:








Ecco l'immagine rappresentante l'area sottesa alla funzione che abbiamo appena calcolato:











Ma l'integrale definito si applica in fisica?
Certamente!
Illustriamo un semplice esempio.
Avete presente il teorema dell'impulso (di cui abbiamo parlato nell'articolo "La fisica in montagna (e non solo!)")?
Adesso lo andremo a esprimere in modo più rigosoro attraverso l'integrale definito.
Prendiamo una particella (corpo unidimensionale) in un sistema inerziale (in cui vale il 1° principio della dinamica newtoniana) soggetta ad una forza F per un certo periodo di tempo t.
Allora l'impulso impartito dalla forza alla particella è:






Il concetto di impulso è particolarmente utile quando si ha a che fare con forze intense che agiscono su tempi brevi.
Ciò accade, ad esempio, nelle collisioni fra 2 particelle, nella percussione di un chiodo con un martello, ecc.
Tali forze sono denominate impulsive e la loro caratteristica fondamentale è rappresentata dalla dipendenza esplicita dal tempo.
Per capire come una forza impulsiva vada a modificare lo stato di moto di una particella, possiamo scrivere l'impulso impartito in un tempo infinitesimo, sfruttando la seconda legge della dinamica:





Osserviamo che i dt si elidono, lasciando spazio alla quantità mdv.
Ma mdv = d(mv).
Come noto, la grandezza




è la quantità di moto (o momento lineare) della particella al tempo t.
Sapendo questo, possiamo scrivere l'impulso infinitesimo come:




Pertanto, l'impulso sarà:





Ergo, tramite il calcolo differenziale e integrale, abbiamo compreso che l'impulso impartito dalla forza ad una particella comporta una variazione della sua quantità di moto!
Questo era solo un piccolo assaggio delle applicazioni degli integrali definiti alla fisica: ne sussistono innumerevoli!
Passiamo ora a tutt'altra questione: le derivate parziali.
Una domanda spontanea potrebbe essere: cosa le differenzia dalle derivate ordinarie e per quale ragione vengono definite con l'appellativo "parziali"?
1° punto importante: le derivate parziali riguardano funzioni di più variabili reali!
Nel calcolo delle suddette, infatti, non si ha a che fare con funzioni come f(x) = x + 3, dove è presente un'unica variabile indipendente, bensì ci si trova di fronte a funzioni alla stregua di f(x; y) = x + 2y, in cui appaiono 2 variabili indipendenti o anche più.
Nella nostra trattazione, prenderemo come riferimento solo funzioni di 2 variabili reali.
Dunque, dovrebbe essere chiaro che il nominativo "parziali" si riferisce al fatto che deriviamo parzialmente rispetto a una variabile, ad esempio x, ma c'è anche il parametro y nella nostra funzione.
Da cosa cominciamo allora per introdurre in dettaglio le derivate parziali?
Partiremo, come nel caso delle derivate ordinarie, dal rapporto incrementale, o meglio dai rapporti incrementali.
Infatti, data una funzione f(x; y) si dice rapporto incrementale parziale di f rispetto a x relativo al punto (x₀; y₀) il rapporto fra l'incremento parziale ∆xf e l'incremento ∆x della variabile x:




Allo stesso modo, definiamo il rapporto incrementale parziale di f rispetto a y relativo sempre al punto (x₀; y₀) come il rapporto tra l'incremento parziale ∆yf e l'incremento ∆y della variabile y:





Stabilito ciò, possiamo andare a definire le derivate parziali.
Si dice derivata parziale della funzione f(x; y) nel punto (x₀; y₀) rispetto alla variabile x il limite, se esiste ed è finito, del rapporto incrementale parziale rispetto a x al tendere a 0 dell'incremento ∆x:




Si chiama derivata parziale della funzione f(x; y) nel punto (x₀; y₀) rispetto alla variabile y il limite, se esiste ed è finito, del rapporto incrementale parziale rispetto a y al tendere a 0 dell'incremento ∆y:




Altri modi per indicare la derivata parziale della funzione f(x; y) rispetto a x sono:
  • f'x(x₀; y₀);
  • Dfx(x₀; y₀).
Analogamente, ulteriori modalità per designare la derivata parziale di f(x; y) rispetto a y sono:
  • f'y(x₀; y₀);
  • Dfy(x₀; y₀).
Dopo tutte queste definizioni formali, andiamo a discernere il succo del calcolo delle derivate parziali.
Per derivare una funzione di 2 variabili reali rispetto a una variabile basta derivare rispetto al parametro selezionato e considerare l'altro come una costante.
Il tutto diverrà molto più chiaro dopo aver osservato alcuni esempi.
Prendiamo la funzione f(x; y) = x² + 3y.
La sua derivata parziale rispetto a x sarà:





La sua derivata parziale rispetto a y sarà invece:






Prendiamo un'altra funzione: f(x; y) = 3x²y + 5x² - 2y².
La sua derivata parziale rispetto a x sarà:

 



La sua derivata parziale rispetto a y sarà:





Potremmo adesso calcolare le derivate seconde.
Come si fa?
Innanzitutto prendiamo la derivata parziale di tale funzione rispetto a x, che abbiamo detto essere 6xy + 10x.
La derivazione può seguire 2 strade: o deriviamo nuovamente rispetto ad x, oppure deriviamo rispetto a y.
Eccole entrambe:









L'analogo vale per quanto concerne la derivazione rispetto alla y.
Riprendiamo allora il risultato della prima derivazione rispetto alla y, ovvero 3x² - 4y e compiamo il medesimo procedimento:










Non riscontrate un particolare suggestivo?
Le 2 derivate miste restituiscono il medesimo risultato (6x).
Ebbene, per il teorema di Schwarz, possiamo asserire che risultano uguali le derivate miste delle funzioni elementari e di tutte le funzioni che si ottengono componendo le stesse tramite operazioni algebriche.
Adesso una breve storia delle derivate parziali, sempre ripresa dallo splendido Storia del Calcolo di Boyer:

"Se si ricorda che la rigorizzazione dei concetti di derivata e di differenziale per funzioni di una variabile risale a Bolzano, Cauchy e Weierstrass dobbiamo allora riconoscere che l'estensione di questi concetti a funzioni di più variabili non è stata del tutto immediata e ha richiesto qualche decennio. Il motivo del "ritardo" non sta certamente nel passaggio dal concetto di derivata a quello di derivata parziale. Queste erano state introdotte già nel corso del XVIII secolo, a opera di matematici quali Jakob e Nikolaus Bernoulli e lo stesso Eulero, [assieme alle] prime ricerche sulle equazioni alle derivate parziali...È "già" del 1873, per esempio, il noto teorema di Hermann A. Schwarz sull'uguaglianza delle derivate parziali seconde miste. Va invece considerato il tempo necessario per rendersi conto dell'analogia solo parziale con le funzioni di un'unica variabile. Nello sviluppo del calcolo, l'analogia svolge un ruolo euristico essenziale ma - come è capitato altre volte nella storia della matematica - può risultare di freno quando si tratta di individuare il momento in cui il parallelismo si interrompe e occorre prendere altre strade."  

Dalla descrizione appena riscontrata si evince dunque che il calcolo differenziale di funzioni di più variabili reali è solo apparentemente equivalente a quello di una singola variabile, poiché sussistono differenze profonde.
Bene, adesso andiamo a scoprire un'applicazione delle derivate parziali in fisica.
Sicuramente rientrano nelle celebri equazioni di Maxwell inerenti all'elettromagnetismo.
Noi andremo tuttavia ad analizzare un argomento più semplice nel quale esse rivestono un ruolo importante: la propagazione degli errori.
Come saprete, in fisica non esistono delle misure precise/perfette, in quanto, se proviamo a misurare una certa grandezza, effettueremo sempre, nonostante la nostra accortezza, dei piccoli errori.
Anzi, potremmo aver effettuato una misura (all'apparenza) estremamente precisa, ad esempio, della lunghezza di un tavolo in centrimetri, ma sussistono sempre ordini di grandezza (millimetri, micrometri, nanometri, picometri, ecc.) che non abbiamo considerato.
Risulta quindi impossibile effettuare una misura precisa al 100%.
Le nostre misure saranno pertanto costituite da 2 valori:

1) migliore stima della grandezza: xbest;
2) incertezza (o errore) assoluto: δx.

Ergo, possiamo scrivere una certa misura (magari la lunghezza di un tavolo) come:




Si definisce anche il cosiddetto errore relativo, pari al rapporto tra l'incertezza assoluta e la migliore stima:






Esso è, a differenza dell'errore assoluto e della migliore stima, un numero puro, che può essere espresso anche in percentuale.
Ma se abbiamo una certa grandezza (più complessa della lunghezza di un tavolo, poiché dipende, poniamo, dal prodotto di altre grandezze) e vogliamo calcolarne l'incertezza, come facciamo?
Prendiamo una grandezza generica q, dipendente, ad esempio, dal prodotto di altre 2 grandezze casuali e indipendenti (x e y).
In simboli abbiamo la funzione q = xy.
Le 2 grandezze avranno rispettivamente incertezze δx e δy.
Per trovare l'incertezza di q, cioè δq, dobbiamo sfruttare la formula generale della propagazione degli errori (basata sulle derivate parziali):






Per fare un esempio concreto, supponiamo che le grandezze x e y abbiamo le seguenti misure:
  • x = 3,0 ± 0,1
  • y = 2,0 ± 0,1
La migliore stima di q sarà: qbest = 6,0.
Ma qual è l'incertezza δq, se q = xy?
Calcoliamo in primis le derivate parziali (prime) della funzione q = xy.









Sicché otteniamo:





Sostituendo i valori forniti nell'espressione abbiamo che δq = 0,36.
La nostra misura di q avrà dunque valore 6 ± 0,36, o meglio, 6 ± 0,4.
Tirando le fila del discorso, abbiamo analizzato 2 importanti nozioni dell'analisi matematica (l'integrale definito e le derivate parziali), senza trascurare i particolari storici relativi ad esse, e ci siamo resi conto della loro importanza in fisica e, di conseguenza, nello studio della natura che ci circonda!